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3/05/25

Il debito dei mercati emergenti assomiglia a un paio di scarpe Converse: sembra che tutte le persone con cui parlo ne possiedano.

In molti conosceranno la “grande narrazione” sui mercati emergenti (assunti quali: i mercati emergenti eccederanno sicuramente le performance dati i bassi livelli di debito, la forte crescita e gli alti valori demografici, eccetera). Abbiamo creato una nota di approfondimento, che fa parte della nostra serie di “Panoramic outlook”, con l’intento di smontare queste tesi.

Intendo esplorare quelli che realmente sono stati i driver fondamentali delle performance dei tre principali elementi del debito dei mercati emergenti (titoli di Stato dei mercati emergenti in valuta locale, titoli di Stato esterni dei mercati emergenti, emissione corporate esterna dei mercati emergenti). La nota coinvolge anche i temi del rischio generato sul debito dei mercati emergenti dall’instabilità dell’Eurozona e il rischio connesso creato da un capovolgimento dei consistenti flussi di portafoglio di un’intera decade che hanno sostenuto l’asset class – temi che ho avuto modo di toccare anche in precedenza – ma il focus principale sarà l’aggiuntivo rischio generato sul debito dei Paesi emergenti dall’inevitabile ribilanciamento economico della seconda maggiore economia mondiale, la Cina.

Il debito dei mercati emergenti è ancora molto di moda nel mondo dell’investimento. Tuttavia, oggi viene definito curiosamente come un buon investimento “nel lungo periodo”, un sottile cambiamento indotto dalle scarse performance di alcuni Paesi emergenti negli ultimi anni. In particolare, all’interno delle economie dell’area BRIC*, dove nei mesi recenti il Real brasiliano e il Rublo russo hanno toccato il punto più basso degli ultimi tre anni nei confronti del dollaro, la Rupia indiana ha segnato un livello record di svalutazione nei confronti del dollaro, e quest’anno lo Yuan cinese ha visto la più forte caduta dalla grande svalutazione del 1994, sempre rispetto al dollaro americano.

Non sto dicendo che il debito dei mercati emergenti non offrirà mai un buon valore: è importante sottolineare che non esiste una buona o una cattiva asset class, bensì una buona o una cattiva valutazione. Ritengo sia fondamentale capire le caratteristiche delle performance del debito dei Paesi emergenti; il rischio che si prospetta sembra crescere e mentre alcuni tassi di cambio hanno iniziato a muoversi, l’asset class non sembra valutare il rischio. Le mode raramente sono durature – il debito dei Paesi emergenti è stato molto “trendy” in precedenza, tuttavia tendenze demografiche favorevoli e tassi di crescita precedentemente forti non hanno salvato i mercati emergenti nel 1981-83, 1997-98 e 2001-02. E ugualmente anche le Converse non sono sempre state “cool”: l’azienda ha dovuto chiedere aiuti per evitare la bancarotta nel 2001 ed è stata in seguito acquisita dalla Nike.

*Albert Edwards di Société Générale, ha giustamente ribattezzato l’acrononimo BRIC come “Bloody Ridiculous Investment Concept”, ovvero “Concetto di Investimento tremendamente ridicolo”, suscitando grande ilarità.

Il secondo trimestre è stato un periodo buio, non solo per l’Eurozona ma anche per l’economia mondiale. Il calo degli indici di sorpresa di Citigroup, iniziato in marzo, è accelerato fino a fine giugno; fra aprile e giugno, inoltre, il PMI ha perso terreno quasi ovunque, come si può vedere dalla heatmap.

La buona notizia è che le autorità hanno intensificato le misure di stimolo in risposta al rallentamento (come dimostrano gli ultimi interventi di BoE, BCE e Banca Popolare cinese). Si potrebbe sostenere che i dati economici rappresentino tutti, in diverso grado, degli indicatori ritardati e che dovremmo piuttosto rallegrarci del rimbalzo registrato da fine giugno dai mercati finanziari, più lungimiranti (ma credo si tratti di una fiducia malriposta, visto che l’unione politica e fiscale è ancora molto lontana e i fondi salvastati come EFSF e MES sono viziati da un meccanismo assolutamente imperfetto).

La cattiva notizia è che alcune aree del mercato obbligazionario attraversano ancora un momento di grande difficoltà. I rendimenti dei titoli di Stato spagnoli a lunga scadenza hanno subito una nuova impennata sino a raggiungere – alla data in cui scriviamo – il massimo infragiornaliero del 18 giugno. I bond sloveni a lunga scadenza rendono attualmente il 7% in un clima di crescenti speculazioni circa un imminente intervento di bailout. E i tassi dei Bund tedeschi a due anni sono tornati in territorio negativo.

In gennaio avevo scritto che i rendimenti negativi dei Bund sarebbero stati una risposta razionale alla crescente probabilità di frattura dell’eurozona e reintroduzione del marco in Germania (v. qui).  Questo perché i titoli di Stato tedeschi hanno una notevole opzionalità.  Ipotizziamo che l’eurozona sia costretta a reintrodurre le valute nazionali: per un investitore spagnolo, allora, un Bund a un tasso del -0,5% non necessariamente renderà il -0,5% alla scadenza, ma potrebbe offrire una plusvalenza anche del 40%, in quanto il marco si rafforzerebbe notevolmente rispetto alla peseta.

Il 31 marzo i rendimenti dei Bund a 2 anni sono effettivamente scesi in territorio negativo, mentre da gennaio i Treasury USA con la stessa scadenza non hanno subito sostanziali variazioni.  Da inizio anno l’euro si è indebolito e la correlazione individuata in gennaio resta tutto sommato valida.  Il grafico seguente fornisce un aggiornamento rispetto ai dati di gennaio.

Nelle ultime due settimane i rendimenti dei Bund sono crollati, tanto che il mercato ha cominciato a speculare sulla possibilità che il prossimo Paese dell’eurozona colpito dai bond vigilantes sia la Germania.  Personalmente non sono d’accordo e ritengo sia molto meglio concentrarsi sulle operazioni di profit taking su alcune posizioni molto lunghe in vista delle elezioni greche.  Gli investitori sembrano essere passati da un estremo sovrappeso a un marcato sovrappeso della Germania.  Come prevedibile in caso di posizioni così popolari, il sell-off cominciato ai primi di giugno ha provocato un effetto domino su varie banche e investitori in leva, con una conseguente ulteriore ondata di vendite. Un fenomeno che ricorda la scossa subita dal mercato tedesco in novembre in seguito a un’asta di Bund poco riuscita, ma allora i titoli di Stato si erano ripresi in fretta.  Il trend a lungo termine caratterizzato dalla fuga di depositi e capitali dal sud al nord Europa è ancora in atto e gli investitori sono sempre più preoccupati dei rischi di una frattura dell’eurozona, un timore che dovrebbe continuare a sostenere le obbligazioni governative tedesche.

Quanto possono scendere ancora i rendimenti dei Bund?  Prendiamo la Svizzera, i cui titoli di Stato quinquennali offrono oggi rendimenti negativi, vale a dire che chi li acquista deve pagare per il privilegio di averli in portafoglio.  Ciò si deve alle crescenti speculazioni sull’insostenibilità del cambio fisso fra euro e franco (o sulla fine della moneta unica) e sui guadagni che potrebbero realizzare i detentori di titoli di Stato elvetici se dovessero mutare gli equilibri attuali. Analogamente, il decennale danese rende 10 punti base in meno del Bund con la stessa scadenza, presumibilmente perché, se l’eurozona dovesse sfaldarsi, salterebbe subito anche il cambio fisso fra euro e corona danese.   All’aumentare delle tensioni nell’eurozona, quindi, i rendimenti dei Bund potrebbero scendere a livelli molto negativi lungo tutta la curva.

Autore: Mike Riddell

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