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26/04/25
Permettetemi di iniziare con due previsioni. In primo luogo, che il titolo “Vision 2020” sarà sicuramente irresistibile per tutte le prospettive dell’anno venturo, a prescindere dal campo in cui lavorate. Questo è il motivo per cui ho brevettato l’idea molti mesi fa, e prevedo ora che potrò vivere di rendita grazie a tutte le violazioni dei diritti d’autore che ci saranno. La mia seconda previsione è che, nel mio settore, quello degli “indovini delle obbligazioni”, secondo la quasi totalità di queste prospettive per il 2020 sarà l’anno in cui scoppierà la “bolla obbligazionaria”. Forse quest’anno avranno finalmente ragione, dopo 30 anni di previsioni volte a far “vendere obbligazioni”. Ma i loro track record non ci inducono certo a pensare che avrebbero un vantaggio nell’ambito di scoppio di bolle. Se siete comunque convinti che il 2020 sarà l’anno in cui trionferà “il mercato orso” sulle obbligazioni, dovrete anche credere che molte tendenze consolidate e a lungo termine stanno per volgere al termine simultaneamente. Sto parlando delle sette tendenze secolari. Se pensate che i loro poteri siano giunti al capolinea, o notevolmente diminuiti, allora dovreste unirvi ai gruppi anti-obbligazionari di gennaio, con tanto di forconi e torce infuocate. Altrimenti, vorrete probabilmente attendere di vedere coi vostri stessi occhi la conclusione definitiva della tendenza al ribasso, durata 30 anni, dei rendimenti obbligazionari e dell’inflazione prima di dire addio al reddito fisso.
Le sette tendenze secolari 1 – Fattori demografici. Ok, i baby-boomer. L’impatto del baby-boom del secondo dopoguerra sull’economia dei Paesi sviluppati non può essere sottolineato abbastanza. Negli anni ’70 e oltre, quando i boomer terminarono i loro studi per andare a giocare un ruolo cruciale nel mercato del lavoro, la scarsità di manodopera, che era stata una caratteristica delle economie occidentali per un paio di decenni, iniziò a volgere al termine. I sindacati persero membri e potere, e l’inflazione salariale calò. Le economie divennero più produttive e più ricche. Con una popolazione in gran parte giovane e in buona salute, le pressioni sullo stato sociale (ad esempio gli oneri pensionistici e le spese sanitarie per gli anziani) erano relativamente contenute. Man mano che i baby-boomer hanno visto i loro guadagni toccare picchi elevati, anche il loro desiderio di risparmiare e investire quei risparmi ha raggiunto nuovi massimi. La domanda di reddito e di asset sicuri è cresciuta drasticamente, determinando un calo dei rendimenti obbligazionari.
2 – L’impatto della tecnologia sull’inflazione. Perché non riusciamo a generare un aumento dei prezzi al consumo o alla produzione nelle economie sviluppate, nonostante i tassi di interesse nulli o negativi, “la stampa di moneta” e periodi di crescita e disoccupazione modesta nell’ultimo decennio, che storicamente avrebbero potuto generare un IPC di almeno il doppio rispetto agli obiettivi di inflazione comuni attuali del 2%? La deflazione incredibile dei beni di consumo rappresenta una delle risposte ed è stata in parte favorita dal crollo del prezzo della tecnologia. Il modello di cellulare StarTAC della Motorola del 1996 costava all’epoca 1000 dollari. Un telefono identico costa oggi circa 200 dollari. Il 1996 è stato probabilmente anche l’anno in cui ho smesso di affittare una televisione (pagata mensilmente) da Radio Rentals e ne ho acquistata una mia, dato che le tv erano divenute più economiche. E non era solo il costo degli apparecchi: spendevo almeno 50 sterline al mese per comprare cd musicali (e ancora prima cassette, a quanto pare ora in voga tra i giovani). Ora spendo 12,99 sterline al mese per tutta la musica che voglio su Spotify. Pensate a tutte le cose che internet ci offre gratuitamente, da cartine a enciclopedie, a notizie, e forse l’impatto di un’inflazione contenuta è in realtà sottovalutato. La trasparenza di internet mi permette inoltre di trovare l’opzione meno cara al mondo quando acquisto qualcosa. Cattive notizie per i negozianti, ma fonte di un surplus e una disinflazione enormi per i consumatori. E non abbiamo ancora neanche toccato l’argomento dell’ascesa dei robot: e se l’intelligenza artificiale e la robotica fossero infine utilizzati su vasta scala nel mercato del lavoro? Quali sarebbero le conseguenze per i salari? Per gli impieghi e per i redditi disponibili? Indubbiamente sono ancora possibili ulteriori ribassi dei prezzi favoriti dalla tecnologia.
3 – Banche centrali indipendenti. Quando Paul Volker fu nominato presidente della Federal Reserve statunitense nel 1979, l’inflazione negli USA era dell’11,3%, e culminò a 14,3% nel marzo del 1980. Allora i Treasury erano considerati quasi come strumenti in cui non era possibile investire dato che i rendimenti erano erosi dall’aumento del costo della vita. Volker fissò il tasso dei fondi federali al di sopra del tasso di inflazione, all’epoca un’idea radicale. L’inflazione continuò a calare durante il suo mandato e si instaurò una cultura di “banca centrale in lotta contro l’inflazione”. Ciò ha condotto all’adozione di obiettivi di inflazione espliciti a livello globale, dalla Nuova Zelanda all’indipendenza della Banca d’Inghilterra a opera di Gordon Brown, passando per la Bce talmente coinvolta da questa sfida di lotta all’inflazione che il suo presidente, Jean-Claude Trichet, ha aumentato i suoi tassi di interesse ben due volte nel mezzo della crisi finanziaria globale, dato che i prezzi del petrolio erano cresciuti anno su anno portando l’IPC al di sopra del 2%. Sicuramente i banchieri centrali si sono attribuiti buona parte del merito per l’ambiente favorevole al reddito fisso nel qualche ci troviamo da circa vent’anni, ma è ovvio che questa separazione tra i loro poteri e quelli dei politici eletti abbia coinciso con tendenze probabilmente più influenti.
4 – Capitalismo. Dato che la manodopera è divenuta meno potente a partire dall’ingresso dei baby-boomer nell’economia, il capitale ha preso il sopravvento e si arroga buona parte dei profitti e della crescita delle economie sviluppate da ormai molti anni. I governi hanno deregolamentato i mercati finanziari e i mercati del lavoro (con alcuni eccezioni degne di nota quali l’introduzione del salario minimo nel Regno Unito) e l’emergere di nuovi colossi tecnologici (i FANG) ha determinato un’ulteriore concorrenza in alcune aree (Amazon ha creato un surplus di consumi enorme nella sua corsa all’acquisizione di dominio di mercato) e una creazione di monopoli in altre aree (google, in italiano googlare, è un verbo oltre che un gigante della pubblicità online). Il capitalismo ha dunque contenuto la crescita salariale, e incoraggiato quella di un’economia basata sul lavoro precario. Anche se esistono esempi di creazione di monopoli, per accaparrarsi territorio, i prezzi sono rimasti comunque contenuti. Date un’occhiata a quei blogger negli Stati Uniti che descrivono come riuscire ad andare avanti unicamente grazie a periodi di prova gratuiti (per qualsiasi cosa, dai materassi ai prodotti alimentari) e offerte di consegna di cibo a metà prezzo da parte di imprese che stanno tentando di guadagnarsi fette di mercato. Proprio adesso mi è stato inviato per mail uno sconto del 50% per un ordine iniziale con Uber Eats. Burger o pizza?
5 – Globalizzazione. L’adesione della Cina all’Organizzazione mondiale del commercio nel 2001 non ha dato inizio al processo di globalizzazione, ma ha sicuramente messo in luce che tutto era cambiato, soprattutto per le imprese manifatturiere. La catena di fornitura è divenuta globale e i prezzi dei beni sono crollati vista l’importazione di prodotti economici fabbricati da individui che guadagnano frazioni rispetto ai salari occidentali. La liberalizzazione delle barriere commerciali e delle tariffe doganali, oltre al miglioramento della logistica e dei costi di containerizzazione e spedizione, ha determinato uno spostamento dei lavori di produzione verso oriente e alla spedizione di beni a buon mercato verso occidente.
6 – Il meme dell’austerità. Sono stato attratto dal libro di Reinhart e Rogoff “Questa volta è diverso” sin dalla sua pubblicazione. Anche se imperfetto nei suoi calcoli iniziali, il suo racconto dell’aumento di prestiti di Stato che ha determinato un disastro economico ha comunque ben descritto un decennio di austerità in molte delle economie più duramente colpite dalla crisi finanziaria globale. Attualmente il rapporto tra prestiti di Stato, emissioni di obbligazioni e rendimenti obbligazionari è sorprendentemente debole: sarebbe logico pensare che quando gli Stati emettono più obbligazioni, i prezzi scendono. A quanto pare ciò non è storicamente vero, in quanto i periodi in cui i governi hanno assunto più prestiti sono generalmente stati periodi di crescita e inflazione deboli. Tuttavia, il Regno Unito ha per esempio registrato emissioni obbligazionarie relativamente modeste a partire dalla crisi finanziaria mondiale, come conseguenza del periodo di austerità più lungo mai registrato. La Germania sta registrando un avanzo di bilancio, nonostante la crescita stagnante della zona euro. È quindi possibile che questo periodo di emissioni obbligazionarie relativamente basse in un momento di crescita debole abbia prodotto rendimenti obbligazionari inferiori a quelli che avremmo normalmente dovuto registrare.
7 – QE. Abbiamo assistito a tre tornate di allentamento quantitativo (QE) della Fed a partire dalla crisi finanziaria mondiale. La Banca d’Inghilterra ha inoltre acquistato sia gilt che obbligazioni societarie. La Banca del Giappone e la Banca centrale europea hanno notevolmente accresciuto i loro bilanci nel quadro di programmi di acquisto obbligazionario. E la Bce ha appena annunciato un QE “infinito” durante il discorso di commiato di Mario Draghi. L’allentamento quantitativo riduce i rendimenti obbligazionari? Sì. Uno studio di tutti i documenti universitari sull’impatto del QE a livello globale ha mostrato che, in media, le tre ondate di allentamento quantitativo negli Stati Uniti hanno ridotto i rendimenti dei Treasury rispettivamente di circa 70, 20 e 10 bps. Anche se l’inflazione resta sotto l’obiettivo in buona parte delle economie sviluppate, è comunque poco probabile che le obbligazioni detenute nei bilanci delle banche centrali siano liquidate. Di fatto, alcuni di noi pensano che queste obbligazioni non verranno mai rimesse in circolazione e arriveranno a scadenza nell’oscurità delle casseforti delle banche centrali.
E tra queste sette tendenze secolari ce ne sarebbe dunque qualcuna in pericolo? Sì. Molte tra loro sembrano avere meno rilievo rispetto a quando toccarono il loro apice, anche se potremmo aver visto soltanto le prime fasi dell’impatto tecnologico sui salari e sull’inflazione: le imprese hanno accumulato grandi quantità di denaro che sarà investito in tecnologia produttiva al primo segnale di aumento dei salari raggiunti dai loro robot “in carne e ossa”. Un esempio concreto di quest’intenzione è stato evidenziato dall’introduzione di sistemi di ordine self-service nei ristoranti fast-food, in seguito agli aumenti del salario minimo per i dipendenti di queste imprese statunitensi. Le tendenze demografiche restano invariate, anche se l’aumento senza fine delle aspettative di vita che avevamo previsto è cessato in alcuni profili demografici, per via delle malattie legate all’obesità o della dipendenza dagli oppiacei. Ci sono inoltre differenze nette tra i Paesi sviluppati, con tassi di natalità molto più elevati negli Stati Uniti che in Europa, che suggeriscono tassi di crescita potenzialmente più elevati in America in futuro. Il Giappone ci mostra che anche quando la crescita della forza lavoro culmina per poi calare (il Giappone è un decennio avanti rispetto all’occidente a livello demografico), ciò non basta a combattere forze deflazionistiche strutturali. Siamo stufi delle banche centrali indipendenti? Donald Trump lo è sicuramente, stando ai suoi tweet dell’ultimo anno. Il presidente della Fed Jerome Powell ha subito pressioni enormi al fine di riportare i tassi verso lo zero, e se Trump fosse rieletto nel 2020, aspettatevi che Powell venga sostituito da qualcuno di maggiormente disposto a rilanciare in modo determinante l’economia statunitense. Nel Regno Unito, Mark Carney resta per il momento il governatore della Banca d’Inghilterra, ma possiamo immaginare come alcuni risultati post-elettorali potrebbero sfociare in scelte di parte, come per esempio una sua sostituzione. Tra l’altro, la Banca d’Inghilterra ha appena annunciato di voler cambiare il nome del suo Rapporto sull’inflazione. Verrà ora chiamato Rapporto di politica monetaria che, per la legge di Sod, potrebbe finire col segnare il ritorno di un’inflazione galoppante. Le banche centrali si sono attribuite il merito per il crollo dell’inflazione negli ultimi 30 anni (e, come ho spiegato, rappresentavano solo uno degli elementi della questione), pertanto ora non dovrebbero essere sorprese dal doversi assumere la responsabilità di un’inflazione eccessivamente debole, e ciò metterà indubbiamente a repentaglio i loro mandati. Se il dominio del capitalismo sul sistema economico proseguirà allo stesso modo o meno dipenderà da alcuni risultati elettorali piuttosto significativi. Su questo fronte, anche se nessuno dei due candidati è il favorito dai bookmaker, sia Jeremy Corbyn nel Regno Unito che Elizabeth Warren negli USA hanno una possibilità di accesso al potere, ed entrambi hanno programmi radicali che implicherebbero probabilmente un aumento delle imposte sulle imprese, delle imposte patrimoniali, di tasse sulle transazioni finanziarie e un aumento della spesa pubblica. I monopoli in ambito tecnologico potrebbero essere smantellati e la regolamentazione finanziaria potrebbe essere nuovamente inasprita. Non può essere esclusa la nazionalizzazione di alcuni settori. Dopo un periodo di populismo di destra nel Regno Unito (Brexit) e negli Stati Uniti (con il motto “Make America Great Again”), il pendolo potrebbe iniziare a pendere dalla parte opposta, e la sinistra potrebbe prendersi la sua rivincita. Assieme ai movimenti protezionistici esistenti negli Stati Uniti (le guerre commerciali in Cina potrebbero attenuarsi, ma hanno già danneggiato l’economia globale) e alle nuove barriere commerciali europee post-Brexit, la filosofia anti-globalizzazione della sinistra (basandoci sul fatto che essa determina una corsa verso il fondo dei diritti dei lavoratori) potrebbe esacerbare la stagnazione degli scambi commerciali internazionali.
Ci troviamo quindi all’alba del 2020 in un contesto meno propizio a rendimenti obbligazionari in calo (in particolare a causa di un fattore, quello del meme dell’austerità), contesto che è probabilmente divenuto sfavorevole anche per via della prospettiva di aumenti potenzialmente notevoli di prestiti di Stato. È anche opportuno notare che le valutazioni iniziali degli asset “privi di rischio” sono poco allettanti, con buona parte dei titoli di Stato dei mercati sviluppati che offre rendimenti reali negativi. Non credo che un rendimento reale negativo sia di per sé un’anomalia e dovremmo giungere a considerare i rendimenti reali elevati degli anni ottanta come l’eccezione piuttosto che la regola (si poteva ottenere un rendimento superiore del 4% all’RPI investendo in gilt indicizzati all’inflazione per un certo periodo), ma i titoli di Stato sono chiaramente onerosi da un punto di vista storico. Tutto ciò significa che anche io chiuderò il 2019 con una view sottopesata sui titoli di Stato, prevedendo un aumento dei rendimenti nel prossimo anno. Ma se i rendimenti obbligazionari aumentassero in modo significativo, vorrei riacquistare gilt, bund, Treasury e titoli di Stato giapponesi, a patto che buona parte delle sette tendenze secolari resti influente, mentre ci sono chiaramente delle fragilità economiche e sociali nel sistema globale che potrebbero determinare ulteriori mosse di politica monetaria delle banche centrali, sia tradizionali (tagli dei tassi) che straordinarie (tagli dei tassi al di sotto dello zero e ancora QE) e una nuova fuga verso la qualità. Non ci siamo ancora scrollati di dosso le conseguenze della grande crisi finanziaria e, con un debito più elevato nel sistema globale rispetto al 2007, un aumento stesso dei rendimenti obbligazionari potrebbe provocare la prossima grande recessione. Infine, non dimentichiamo che il mercato internazionale dei titoli di Stato fissa il tasso “privo di rischio” che è il fattore principale di valutazione di tutti i prezzi degli asset, che si tratti di obbligazioni societarie, titoli azionari e immobiliari. Dunque, se vi aspettate un bagno di sangue per le obbligazioni, l’impatto su altre asset class potrebbe essere ancora più forte…

Si può affermare senza tema di smentita che, all’inizio del 2016, in pochi avrebbero previsto di chiudere l’anno con il presidente eletto Trump in procinto di insediarsi alla Casa Bianca e la classe dirigente britannica in lite aperta sulla modalità (dura, morbida o una via di mezzo?) dell’uscita del Paese dall’Unione Europea.

Dopo l’andamento fiacco del 2015 in molte aree del reddito fisso, il 2016 è stato nel complesso più positivo, nonostante la forte volatilità. Gli spread si sono contratti nel credito investment grade e, ancora di più, nel segmento dei titoli high yield, in cui i tassi di default sono rimasti elevati, anche se su questo hanno inciso soprattutto gli emittenti del settore energetico. L’incremento graduale del prezzo del petrolio dovrebbe attenuare almeno in parte le pressioni su queste società. E, dopo un 2015 di passione per i mercati emergenti, l’asset class ha visto un andamento decisamente più positivo nel 2016, almeno fino alla vittoria di Donald Trump in novembre.

Una delle reazioni più evidenti dei mercati finanziari al risultato elettorale è stata la brusca correzione scattata sui titoli di Stato. Ora che il partito Repubblicano ha conquistato la maggioranza dei seggi sia al Senato che al Congresso, il presidente eletto Trump dovrebbe avere i numeri per realizzare le politiche economiche promesse, imperniate su una spesa infrastrutturale consistente e lauti sgravi fiscali per le imprese, dovremmo aspettarci la messa in atto anche delle paventate misure di stampo protezionista.

Trumponomics: la nuova Reaganomics?

Sono state proposte molte similitudini fra lo scenario che si prospetta per Donald Trump nel 2017 e quello esistente nel 1981, ai tempi dell’insediamento di Ronald Reagan. All’epoca, Reagan aveva ereditato un’economia anemica con un tasso di inflazione prossimo al 15%. La sua prima risposta fu l’Economic Recovery Tax Act, una legge che prevedeva ampi tagli alle imposte, entrate inferiori per lo Stato e una riduzione della spesa pubblica previdenziale. Di conseguenza, i rendimenti sui Treasury salirono ai massimi di sempre. A quei tempi, il rapporto debito/PIL era di appena il 30%, un livello molto distante dal quasi 100% che Trump sta ereditando oggi (si veda il grafico 1).

Ciò spiega il timore che Trump semplicemente non disponga del margine di cui godeva Reagan per procedere con la Trumponomics senza spaventare i mercati. La sua proposta di incrementare lo stimolo fiscale si annuncia inflazionistica e, se davvero dovesse dichiarare guerra aperta sul piano commerciale, l’impatto potrebbe essere ancora più pronunciato, con i dazi imposti per rappresaglia destinati a spingere verso l’alto i prezzi dei beni importati.

È la fine della globalizzazione?

La vittoria di Trump e il voto britannico a favore della Brexit sono due delle sfide più rilevanti degli ultimi anni per lo status quo economico mondiale, che hanno riportato in auge il dibattito intorno all’impatto della globalizzazione sul mondo sviluppato.

Sul tema degli scambi commerciali, la scelta dei Paesi ricchi di delocalizzare i centri produttivi all’estero e la conseguente perdita di posti di lavoro nel mondo sviluppato sono state additate dai politici populisti come conseguenze negative del libero commercio.

Il “grafico a elefante” (nella figura 2) mostra come i redditi della metà più povera del mondo siano cresciuti con la stessa rapidità di quelli dell’1% più ricco del mondo, nei vent’anni fino al 2008, mentre i redditi della classe media del mondo sviluppato sono rimasti stagnanti, il che forse contribuisce a spiegare l’ascesa del nazionalismo nei Paesi avanzati.

Ovviamente ci sono molti altri fattori in gioco, inclusi i voti di protesta contro i governi in carica e le questioni legate all’immigrazione. Il compito che ora devono affrontare gli economisti è la valutazione dell’impatto che può avere sull’economia globale un’amministrazione USA più proiettata all’interno. Se le nazioni cominciano a rinnegare gli accordi commerciali innalzando barriere doganali, potrebbe innescarsi un circolo vizioso di azioni e reazioni destinato a sfociare in una contrazione della crescita mondiale. In un ambiente di questo tipo, perdono tutti.

Austerità e disuguaglianza: non è solo un problema anglosassone

In nessun’altra regione come nell’Europa di oggi i temi dell’austerità e della crescente disuguaglianza sono mai stati tanto attuali. La disoccupazione ostinatamente alta, combinata con il deterioramento della qualità della vita, ha determinato livelli di instabilità civile e politica sempre più alti, e i partiti populisti e nazionalisti sono riusciti ad approfittare di questo fenomeno.

Per la Francia si prospetta un importante banco di prova politico nella primavera del 2017, quando sono in programma le elezioni presidenziali. Marine Le Pen, leader del Fronte Nazionale, tenterà di cavalcare l’onda di consenso che ha saputo costruirsi per guidare il partito alla sua prima vittoria. Se è vero che questo risultato richiederebbe un massiccio spostamento di voti, gli eventi recenti sono lì a ricordarci che l’ascesa dei partiti anti-establishment su scala mondiale non è da sottovalutare.

Una difficoltà aggiuntiva per l’Europa deriva dal fatto che la sua capacità di stimolare la crescita e l’occupazione attraverso l’aumento della spesa pubblica e infrastrutturale e la riduzione delle imposte è più limitata, in confronto ad altre economie. Gli alti livelli di indebitamento stanno costringendo la maggior parte degli Stati europei a frenare la spesa, anziché incrementarla. L’impossibilità di stampare moneta a livello dei singoli Paesi impone peraltro a ogni Stato membro dell’Unione Europea di dimostrare una disciplina fiscale notevole.

Per i partiti politici europei tradizionali che aspirano a recuperare i voti persi a favore dei rivali più estremisti, la sfida è quindi migliorare gli standard di vita di centinaia di milioni di europei, rispettando al contempo i vincoli di bilancio imposti dall’UE.

Il 2017 e l’effetto Trump

Come già notato, l’elezione di Trump implica probabilmente l’adozione di una politica di bilancio fortemente espansionista da parte degli Stati Uniti. Il presidente eletto ha anche proposto un deciso incremento della spesa per infrastrutture e del budget per la difesa. Se questo dovesse spingere l’inflazione già in ascesa, la Fed potrebbe trovarsi costretta a innalzare i tassi d’interesse provocando, di conseguenza, un ulteriore apprezzamento del dollaro.

Lo yen e l’euro sembrano particolarmente vulnerabili, vista la conferma della politica monetaria espansiva da parte della Banca del Giappone (BoJ) e della Banca centrale europea (BCE). La decisione della BoJ di passare a misure mirate alla curva dei rendimenti garantisce che i tassi reali scendano con l’aumento dell’inflazione, pertanto che le condizioni finanziarie diventeranno sempre meno rigide, con l’avanzare della ripresa.

In Regno Unito, il Ministro delle Finanze Philip Hammond ha confermato nella dichiarazione d’autunno che non ci sarà un avanzo di bilancio, le regole per la spesa pubblica saranno allentate e il gettito fiscale sarà inferiore, a causa degli utili e dei consumi delle famiglie mediamente più bassi.

Il dilemma dell’Europa sul QE

L’annuncio della BCE di marzo, riguardo all’estensione del piano di acquisti di asset alle obbligazioni societarie non bancarie di categoria investment grade (IG), non ha fatto altro che accentuare il divario fra Stati Uniti ed Europa.

La flessibilità del programma ha colto di sorpresa il mercato, provocando una contrazione decisa e immediata degli spread del credito, non solo nel segmento dei titoli potenzialmente idonei all’acquisto, ma anche sui mercati europei delle obbligazioni societarie in generale, inclusa l’estremità inferiore dello spettro di rischio IG.

Uno dei risultati principali è che la BCE è diventata formalmente un nuovo grande attore insensibile ai prezzi sul mercato dei titoli corporate europei. In quanto tale, ha fornito un vigoroso supporto tecnico al credito europeo, fissando un limite minimo per i prezzi e spingendo ancora più in basso i rendimenti obbligazionari.

Una conseguenza voluta del QE è nota come l’effetto di ribilanciamento dei portafogli, che si verifica quando gli investitori privati, nel tentativo di ottenere remunerazioni positive, sono costretti ad assumere rischi di credito sempre maggiori. Per molti, questo ha determinato uno spostamento verso il basso lungo la curva di credito, ma soprattutto all’esterno, alla ricerca di obbligazioni con rendimenti positivi.

Guardando al 2017, l’umore di mercato resta fragile. L’extra rendimento offerto dai Treasury rispetto ai bund tedeschi è vicino ai massimi di sempre e la situazione è analoga nel mercato dei titoli societari. Più la BCE continua a esercitare una pressione al ribasso sui rendimenti delle obbligazioni corporate europee, maggiore sarà l’incentivo per gli investitori ad allontanarsi verso i rendimenti relativamente più attraenti disponibili sul mercato dei titoli societari statunitensi.

Ai tempi del lancio del programma di acquisti di asset, l’economia europea era in piena deflazione. Da allora, l’inflazione mensile è leggermente migliorata, grazie alla ripresa dei prezzi delle commodity su scala mondiale. Pur essendo ancora lontana dall’obiettivo della BCE, vicino ma al di sotto del 2%, essa ha beneficiato del momentaneo sostegno dovuto alla recente stabilizzazione dei prezzi energetici. Nei prossimi mesi, la BCE terrà sotto stretto monitoraggio le aspettative di inflazione, per valutare l’eventuale esigenza di ulteriori misure monetarie espansive.

Mercati emergenti: solo cattive notizie?

La vittoria di Trump ha molteplici implicazioni per i mercati emergenti. A prima vista, l’esito è chiaramente negativo, considerando i rischi potenziali legati a fattori come la recrudescenza del protezionismo, il forte incremento della spesa pubblica, le misure anti-immigrazione e l’incertezza sul fronte della politica estera.

Va detto, però, che l’impatto della presidenza Trump non sarà uniforme. Alcuni Paesi di rilievo, come l’India e il Brasile, sono economie relativamente chiuse che dovrebbero restare isolate dalle conseguenze degli sviluppi negli Stati Uniti, mentre nazioni come la Repubblica Ceca e l’Ungheria dipendono molto più dall’Europa, in termini di esportazioni. La Russia, invece, potrebbe beneficiare di un eventuale allentamento delle sanzioni finanziarie imposte dagli Stati Uniti.

L’attenzione sarà focalizzata principalmente sulle relazioni fra USA e Cina. Come maggiore investitore estero nel debito pubblico statunitense, la Cina potrebbe considerare di ridurre queste posizioni per prevenire un deprezzamento troppo rapido della propria valuta nei confronti del biglietto verde. I possibili eventi chiave da tenere d’occhio sono l’introduzione di dazi o la decisione di additare la Cina come la fonte di manipolazioni dei cambi valutari.

Nonostante la forte ascesa dei rendimenti sui Treasury seguita alle elezioni, ci aspettiamo ulteriori rialzi anche se più contenuti e graduali. Per diverse economie emergenti questa prospettiva è meno problematica di quanto sarebbe stata in precedenza, dopo gli interventi realizzati per ridurre il disavanzo corrente e i livelli complessivi di debito denominato in dollari USA.

Tuttavia, come accade sempre per tutte le asset class, e a maggior ragione per i mercati emergenti, molto dipenderà dal flusso di notizie con l’ingresso nel 2017 e da quanto il nuovo anno si rivelerà ricco di sorprese come il 2016.

C’è stata, e ci sarà, divergenza

Anche se in qualche modo non se n’è avuta la sensazione, nel 2015 il mercato è stato ribassista per i titoli di Stato statunitensi e britannici, con rendimenti fino a livelli compresi tra circa 20 e 30 punti base (bps) per quasi tutte le scadenze. In netto contrasto, le obbligazioni europee hanno segnato quest’anno nuovi minimi record, inizialmente quando la Banca Centrale Europea (BCE) ha annunciato misure di allentamento quantitativo (QE) e ha tagliato i tassi di interesse a livelli negativi, ma poi nuovamente prima della sua riunione di dicembre, in vista di ulteriori misure di espansione monetaria. I titoli di Stato tedeschi offrono ora rendimenti negativi fino a sei anni, e persino i titoli di debito spagnolo e italiano, che prezzavano elevate probabilità di default fino al recente 2012, scivolano in territorio negativo sull’estremità breve della curva.

Altrove nel reddito fisso, buona parte degli spread delle obbligazioni societarie di categoria investment grade di Regno Unito ed Europa ha dato prova di stabilità, anche se alcuni rischi evento sono tornati a fare capolino sul mercato (ad esempio, gli spread delle obbligazioni VW sono stati duramente colpiti dopo lo scandalo dei test sulle emissioni della compagnia). Quest’anno gli spread delle obbligazioni investment grade USA si sono ampliati in quanto le imprese hanno emesso enormi volumi di debito, forse in previsione di un prosieguo degli aumenti dei rendimenti con l’eventuale rialzo dei tassi da parte della Federal Reserve (Fed). Il mercato statunitense ha anche registrato un certo deterioramento fondamentale della qualità del credito: l’indebitamento è cresciuto, in parte in seguito ai riacquisti azionari e alle fusioni e acquisizioni (M&A) finanziati dai prestiti. Le obbligazioni high yield USA sono state le più deludenti dell’anno, sulla scia del declino partito a fine 2014, quando le obbligazioni legate all’energia (piattaforme, condutture, esplorazione e raffinazione) hanno iniziato a scontare un declino prolungato dei prezzi del petrolio. E man mano che altri prezzi delle materie prime (rame, minerale di ferro) hanno toccato i loro minimi livelli da molti anni, le obbligazioni esposte ai metalli e al minerario hanno anch’esse subito ondate di vendite. Tuttavia, al di fuori dei segmenti energetico e delle materie prime, le aspettative di default restano comunque molto modeste.

Se c’è stato un mercato ribassista per i titoli di Stato USA e britannici, esso comunque impallidisce se confrontato con quello dei Paesi Emergenti (EM). Il debito EM in valuta locale ha attraversato un anno terribile. Il rallentamento della Cina ha generato timori per la crescita globale, con conseguenze negative sulle economie in via di sviluppo che esportano materie prime. Con l’aumentare di questi timori, i deflussi dei “turisti del rendimento” dai Paesi in via di sviluppo hanno esacerbato i crolli dei prezzi del debito EM. Nello spazio in valuta locale, molti titoli di Stato EM rendono ora oltre il 7% (il Brasile offre un rendimento superiore al 15%). Se associamo questi rendimenti ai deprezzamenti valutari del 20-30% rispetto al dollaro statunitense, iniziamo il 2016 con un miglioramento considerevole delle valutazioni del debito EM.

A proposito del dollaro, con l’aumentare delle aspettative di rialzo dei tassi da parte della Fed, il biglietto verde ha dato prova di vigore notevole per un altro anno. Avendo rappresentato una delle mie maggiori posizioni di convinzione negli ultimi due anni, è giunto il momento di chiedersi se la valutazione del dollaro rifletta già un mondo di tassi USA in rialzo e di crescita modesta altrove. A partire da metà 2014, l’indice del dollaro USA è salito quasi del 25%. Lo status di “bene rifugio” del dollaro in un mondo di rinnovate tensioni geopolitiche (Ucraina, Siria) e la debolezza economica diffusasi dalla Cina al resto dei Paesi Emergenti spiegano parte di questo apprezzamento. Ma il resto può essere spiegato da quella che potrebbe essere “La Parola dell’Anno” in ambito finanziario per il 2016: divergenza. Non solo è probabile che i tassi aumentino negli Stati Uniti nel 2016, ma per l’Eurozona, il Giappone e le economie emergenti menzionate, sono probabili ulteriori, e non minori, misure di stimolo monetario.

Posizionamento per il 2016

Un membro della banca centrale mi ha detto di recente che “il percorso meno probabile della politica monetaria è quello scontato dai mercati obbligazionari”. Il mercato dei future sui tassi di interesse statunitensi si aspetta un ritmo graduale di rialzi dei tassi verso il 2% nei prossimi due anni. Stando a questo membro della banca centrale, crescita e risultati di inflazione saranno probabilmente binari. La fase di inflazione modesta in cui ci troviamo attualmente potrebbe essere sintomatica di profondi problemi nell’economia globale, nel qual caso saranno necessarie ulteriori misure di espansione e di politiche monetarie non convenzionali. O, se i recenti sviluppi salariali proseguissero, l’inflazione potrebbe bruscamente tornare ai livelli target, e i tassi dovranno crescere molto più rapidamente di quanto si aspetta il mercato. Crediamo sia più probabile che molte aree del mercato del lavoro abbiano raggiunto piena capacità negli Stati Uniti e nel Regno Unito e che ci sia poco valore nei loro titoli di Stato.

Se avessimo ragione, e se la recente inflazione salariale fosse sostenibile, i tassi di inflazione dovrebbero risalire al di sopra dell’1% nelle economie sviluppate. Occorrerà più tempo prima che i livelli dell’Indice dei Prezzi al Consumo tornino al di sopra dei target del 2% della banca centrale ma, scontando un’ostinata disinflazione, le obbligazioni indicizzate sono per noi allettanti. L’assicurazione è più conveniente quando è a buon mercato, e lo stesso vale per la protezione dall’inflazione.

Valore nelle obbligazioni societarie

Per quello che riguarda i bond societari, è difficile immaginare che i tassi di default crescano molto rispetto ai livelli attuali. I fondamentali stanno lentamente deteriorandosi, ma al di fuori dei titoli legati all’energia e alle materie prime, gli spread sembrano remunerare più che a sufficienza gli investitori per i rischi di credito assunti. I rischi di liquidità restano tuttavia elevati, in quanto la crescita degli asset del mercato dei bond corporate è stata accompagnata da una contrazione della capacità e della volontà delle banche di investimento di detenere obbligazioni sui loro bilanci. A nostro avviso gli investitori vanno remunerati sia per il rischio di credito che di liquidità e devono detenere un portafoglio con maggiori strumenti di liquidità e di reddito fisso rispetto a quanto auspicherebbero meramente da un punto di vista degli investimenti.

Esistono due solide fondamenta per i mercati del credito mentre ci avviciniamo al 2016. In primo luogo, gli spread di credito dei titoli societari investment grade (IG) e dei titoli high yield (HY) compenseranno con tutta probabilità abbondantemente i tassi di default attesi (pertanto gli investitori nel credito che detengono i bond fino a scadenza otterranno performance migliori degli investimenti nei titoli di Stato). In secondo luogo, in un mondo di rendimenti bassi o negativi dei titoli di Stato, la domanda degli investitori per il credito resta importante. In particolare, crediamo che le obbligazioni USA con rating BBB a lunga scadenza offrano ottimo valore fondamentale: individuiamo spread di 250-300 bps sui Treasury in imprese che ci piacciono (si veda grafico 1).

Grafico 1: Le valutazioni del credito USD con rating BBB a lunga scadenza restano allettanti

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Fonte: Bloomberg, Bank of America Merrill Lynch BBB 15 year + Index, settembre 2015

Il segmento investment grade USA ha registrato una sottopeformance nel 2015 a causa del peso delle emissioni in quanto le imprese si aspettavano un avvio al ciclo di rialzi della Fed. Di conseguenza, l’aumento del rendimento sul debito investment grade europeo è ora superiore al 2% a livello di indice (si veda grafico 2).

Grafico 2: Spread investment grade USA rispetto a investment grade Europa

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Fonte: M&G, Indici Bank of America Merrill Lynch, 18 novembre 2015

Pur essendovi la percezione che il credito sia oneroso, vale la pena di notare che negli ultimi 20 anni circa, gli spread delle obbligazioni corporate globali sono stati meno ampi di quanto siano ora il 73% delle volte e, dopo l’ampliamento dei differenziali registrato nei mesi di agosto e settembre, la mia strategia obbligazionaria su scala globale è consistita nell’incrementare il rischio di credito, sia nel segmento investment grade che in quello high yield.

Ciò non significa che non ci siano difficoltà. Riteniamo che una buona fetta della “remunerazione in eccesso” ottenuta dagli investitori creditizi per la detenzione di quest’asset class non riguardi il rischio di credito, bensì il rischio di liquidità. In un paio di occasioni nel corso del 2015 i mercati del credito sono stati estremamente vicini alla chiusura per via di mancanza di propensione al rischio. La gestione del rischio di liquidità in un portafoglio è importante quanto la selezione delle imprese cui decidiamo di elargire prestiti: ciò potrebbe voler dire detenere maggior liquidità o titoli di Stato di quanto si voglia idealmente ed evitare emissioni obbligazionarie minori o complesse. Inoltre, l’utilizzo degli indici credit default swap (CDS) è importante in quanto rappresenta un modo estremamente liquido di aggiungere o rimuovere rischio di credito da un fondo.

Altre difficoltà riguardano comportamenti sempre peggiori da parte degli emittenti di obbligazioni societarie. Per esempio, gli investitori obbligazionari non apprezzano M&A finanziati dal debito che sfociano in declassamenti dei rating oppure obbligazioni emesse per riacquisti azionari (o per l’acquisto del terzo yacht del proprietario dell’azienda). Questo tipo di emissioni sta riemergendo nel mercato e la leva societaria sta aumentando. Pertanto, gli effetti positivi del miglioramento dei fondamentali corporate non sono più dalla nostra e ci sono inoltre stati un aumento del rischio idiosincratico (lo scandalo delle emissioni VW, ad esempio, che ha provocato un ribasso di circa il 10% delle sue obbligazioni decennali) e un duro colpo a livello settoriale: le obbligazioni energetiche high yield hanno generato performance estremamente deludenti sulla scia del collasso del greggio, e molti bond sono ora prezzati a livelli di sofferenza (anche i titoli legati alle materie prime, come Glencore, ne hanno risentito). I default allungheranno il passo rispetto al tasso annuale del 2,5% dell’high yield globale, ma con spread HY al 6% rispetto ai titoli governativi, l’asset class ha la possibilità di generare sovraperformance.

Altrove, l’ondata di vendite del debito e delle valute emergenti sembra rappresentare la maggiore opportunità di valutazione nel reddito fisso globale. Permangono rischi considerevoli, tuttavia, dovuti sia al continuato rallentamento del commercio globale che alle politiche interne e al deterioramento fiscale. Abbiamo chiuso le nostre posizioni corte sui Paesi Emergenti, ma non siamo ancora pronti ad essere completamente rialzisti su quest’asset class.

Infine, il dollaro tende a generare buoni risultati fino a quando la Fed avvia il suo ciclo di rialzo. Mentre il rafforzamento della valuta USA è relativamente modesto rispetto ad alcuni dei suoi precedenti cicli rialzisti, e ci aspettiamo che esso continui a sovraperformare durante il prossimo anno per via del prosieguo della grande “divergenza”, su alcune valutazioni fondamentali, e tenendo conto del forte posizionamento degli investitori su di esso, il potenziale di rialzo non è elevato quanto lo è stato in passato.

La versione integrale del Panoramic Outlook 2016 di Jim Leaviss per i mercati obbligazionari globali è disponibile al seguente link:

https://bondvigilantes.com/blog/panoramic-outlook/global-bond-market-outlook-2016/

Un’ asset class in ascesa

Il debito societario dei Paesi Emergenti (EM) ha rappresentato il segmento del reddito fisso a più rapida ascesa dell’ultimo decennio, crescendo di quasi sette volte rispetto al 2005, con un debito esterno delle imprese emergenti attualmente pari a circa 1.700 miliardi di dollari USA, maggiore del mercato del credito HY statunitense. Un notevole contributo a questo crescita negli ultimi anni è stato apportato dalla quota in aumento di emissioni quasi-sovrane, rappresentante il 49% dei 371 miliardi di dollari USA delle obbligazioni emesse nel 2014 (si veda grafico 1). Sostenuto da questa tendenza, il volume delle obbligazioni EM quasi-sovrane pari a 783 miliardi di dollari USA ha superato, per la prima volta nel 2014, il volume di titoli EM unicamente sovrani di 747 miliardi di dollari USA.

Anche se la definizione varia tra gli attori di mercato, un’entità o una compagnia vengono tipicamente definite come “quasi-sovrane” se un governo possiede oltre il 50% delle loro azioni o oltre il 50% dei loro diritti di voto.  Storicamente, i Paesi in via di sviluppo hanno usato emissioni quasi-sovrane per adempiere funzioni politiche, sviluppare il mercato del debito corporate in valuta forte, o promuovere l’espansione internazionale di attori interni di punta.

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Fonte: M&G, Bloomberg, JP Morgan, maggio 2015

Una delle migliori performance aggiustate per il rischio dei Paesi Emergenti

Le obbligazioni quasi-sovrane EM hanno generato buoni risultati dal 2005. Secondo JP Morgan*, hanno messo a segno un risultato annualizzato del 6,05% tra il 2005 e il 2014. Con un indice di Sharpe di 0,51 nello stesso periodo, questa sotto-classe di attivi ha conseguito il risultato aggiustato per il rischio migliore del segmento del debito EM (in valuta forte) dell’ultimo decennio. Le performance soddisfacenti hanno coinciso con un periodo di prosperità per i mercati emergenti, caratterizzato da fattori macroeconomici favorevoli per i Paesi in via di sviluppo e da fondamentali relativamente solidi nell’universo del debito corporate in continua ascesa.

Tuttavia, i tempi sono indubbiamente cambiati per i Paesi Emergenti e sono tornate a galla difficoltà, questa volta rappresentate dal dollaro statunitense più pesante, dai modesti prezzi delle materie prime, dai timori circa l’atterraggio duro dell’economia cinese e dai deflussi EM per via del tanto atteso aumento dei tassi di interesse da parte degli Stati Uniti, tra i vari fattori. In questo contesto, un ruolo importante per i titoli di credito quasi-sovrani è stato giocato dalla crescente differenziazione fatta dagli investitori in termini di fondamentali societari (un’analisi in un certo senso mancante, fondata sull’ipotesi che l’analisi sovrana fosse sufficiente e che i fondamentali societari quasi-sovrani quasi non contassero).

*Evoluzione dei Quasi-sovrani nell’Indice EMBI Global, JP Morgan, febbraio 2015

Valutare il rischio di credito degli emittenti quasi-sovrani

In buona parte dei casi, un titolo quasi-sovrano ha una cosiddetta garanzia “implicita” da parte del suo governo, ma ciò non significa che otterrà necessariamente una garanzia “esplicita” rispetto alle sue obbligazioni.   Pertanto, gli investitori in obbligazioni devono assicurarsi di esaminare con attenzione la documentazione relativa ai bond per poter valutare se stanno investendo o meno in un’obbligazione esplicitamente garantita a livello sovrano. Ad esempio, anche se SriLankan Airline, una compagnia di bandiera, presenta fondamentali di credito poco solidi, le sue obbligazioni godono comunque di un rating pari a B+ da parte di Standard & Poor’s, in linea con il rating del governo dello Sri Lanka, per via della garanzia incondizionata e irrevocabile (e pertanto esplicita) offerta dal governo rispetto alle obbligazioni di SriLankan Airlines. Inoltre, una clausola relativa al cambio di controllo è di importanza primaria nel valutare il livello di protezione degli investitori in obbligazioni rispetto a un cambiamento del controllo statale. Ancora una volta, una due diligence relativa alla documentazione del credito è richiesta per individuare questi rischi.

Un altro elemento chiave per valutare il rischio quasi-sovrano è rappresentato dal livello e dalla probabilità di supporto governativo in caso di problemi di liquidità. Quanto più strategico sarà il ruolo di un’impresa per un Paese, tanto più probabile sarà il sostegno del governo per quell’impresa. Questo spiega la ragione per cui esiste una definizione più ampia di quasi-sovrano (anche se meno usata dagli attori di mercato) che include compagnie controllate da privati ma di importanza estrema per l’economia e che sarebbero probabilmente sostenute dai loro rispettivi governi. È il caso, ad esempio, della compagnia privata russa Alfa-Bank. Al contrario, un elevato livello di controllo azionario da parte dello Stato non significa necessariamente che un governo sarà di supporto in caso di default. Pertanto, valutare la volontà (ancor prima della possibilità) di intervento da parte di un governo è di importanza cruciale.

Il terzo fattore nel valutare il rischio quasi-sovrano è, ovviamente, rappresentato dal rischio di credito societario. Ciò include lo stesso lavoro  che per i titoli corporate EM “puri” (ovvero prospettive di settore, performance operativa, profili creditizi, analisi di gestione, disallineamento valutario, analisi del rischio di rifinanziamento, covenant, stime di tassi di recupero obbligazionari in casi di default, etc) per poter misurare il cosiddetto “profilo di credito individuale” ( standalone credit profile, SACP) di un emittente. È buona pratica valutare un rating individuale del credito intrinseco, escludendo il sostegno straordinario di un governo in caso di default, ma includendo qualsiasi supporto governativo quotidiano o occasionale nell’attività giornaliera di una compagnia.

Come quotano le obbligazioni quasi-sovrane

Per comprendere in che modo quotano nel mercato le obbligazioni EM quasi-sovrane, una distinzione importante fatta dagli investitori consiste nel già menzionato livello di controllo statale e la presenza o non di garanzie governative, in quanto la correlazione di una quasi-obbligazione rispetto alla sua componente sovrana è fortemente dipendente da questi due elementi. In generale, i differenziali di emittenti quasi-sovrani che sono esplicitamente garantiti o controllati al 100% dai  loro governi sono fortemente correlati al loro rispettivo spread sovrano.

Il riemergere di correnti avverse per i Paesi Emergenti

Il deterioramento dei fondamentali EM ha rappresentato un tema importante negli ultimi 18 mesi.

Da un punto di vista macroeconomico, tutti i Paesi chiave nelle regioni principali hanno mostrato una maggiore vulnerabilità: (i) Il Brasile, per l’America Latina, deve far fronte a enormi difficoltà economiche e politiche, (ii) La Russia, per l’Europa emergente, è ancora soggetta a sanzioni economiche da parte dell’Occidente per via del suo ruolo nella crisi ucraina e (iii) la Cina, per l’Asia, sta cercando di riacquistare competitività svalutando il renminbi.

Inoltre, i bassi prezzi delle materie prime incidono, seppur in modo eterogeneo, su una serie di Paesi in via di sviluppo. Il timore di conseguenze avverse del tanto atteso rialzo dei tassi da parte degli USA sul debito emergente non sta certo aiutando a risollevare il clima di fiducia. Tra gli aspetti positivi, i prezzi del greggio contenuti hanno giovato a buona parte dei Paesi asiatici importatori netti di petrolio, mentre l’America centrale, i Caraibi e il Messico stanno traendo vantaggio da un’economia statunitense più solida.

L’adeguamento rispetto agli spread obbligazionari quasi-sovrani dovrebbe proseguire

I fondamentali dei Paesi Emergenti sono peggiorati, ma i differenziali obbligazionari sono divenuti più allettanti nell’asset class. Gli investitori potrebbero, pertanto, valutare attualmente l’eventuale emergere di opportunità. A nostro avviso ciò non è ancora successo, e la nostra opinione a riguardo si basa sulle seguenti considerazioni:

  • Guardando agli spread sui sovrani, le obbligazioni asiatiche quasi-sovrane sembrano attualmente le meno allettanti. Se da una parte i fondamentali corporate hanno dato prova di buona tenuta in tutta la regione, i differenziali sui sovrani non hanno, inaspettatamente, reagito al contesto macroeconomico in deterioramento in Asia. Ciò mostra che le imprese statali cinesi (note come SOEs) sono ancora considerate un porto sicuro per molti investitori, secondo i quali la Cina non permetterebbe a un’entità posseduta dal governo di andare in bancarotta. Dato il rallentamento dell’economia cinese e la mancanza di evidenza storica di salvataggio di governo in caso di default, un approccio cauto al credito quasi-sovrano cinese, con un’analisi attenta del profilo di credito individuale degli emittenti, sembra comunque essenziale, a nostro avviso.
  • Nella regione EEMEA, il rialzo di spread offerto dai quasi-sovrani rispetto ai loro corrispondenti sovrani era allettante a inizio anno. Tuttavia, la distensione della situazione geopolitica in Ucraina nella prima metà del 2015 ha generato una forte sovraperformance e una contrazione di differenziale dei titoli quasi-sovrani (e corporate) russi in questo periodo.
  • Infine, gli spread quasi-sovrani in America Latina appaiono, come prevedibile, ampi e al di sopra dei livelli storici. Ma questo elemento è principalmente attribuibile al Brasile e, in particolare a Petróleo Brasileiro (Petrobras), in seguito al deteriorarsi dei fondamentali del gruppo petrolifero e gassoso e allo scandalo di corruzione in cui è coinvolta l’impresa. Adeguati per il più grande Paese dell’America Latina, gli spread quasi-sovrani sui sovrani, escludendo il Brasile, sono stati relativamente stagnanti a partire da maggio 2014. Indubbiamente, stanno offrendo poco valore in quanto (a) gli spread degli emittenti sovrani latino-americani si sono ampliati di più a causa del peggioramento delle situazioni macro e (b) i profili di credito individuali degli emittenti quasi-sovrani si sono fortemente indeboliti negli ultimi diciotto mesi.

Nonostante tali fattori, il rialzo degli spread delle obbligazioni quasi-sovrane al di sopra dei rispettivi sovrani dovrebbe continuare ad offrire opportunità per gli investitori a caccia di rendimenti interessanti, ma comunque consapevoli di un aumento dei default nel segmento obbligazionario corporate emergente “puro”. Gli emittenti quasi-sovrani, rispetto alle imprese EM pure, offrono una probabilità più elevata di supporto statale per via della loro partecipazione e dell’importanza strategica generale per i loro Paesi di appartenenza. In tale contesto, un approccio selettivo è essenziale, associato ad un’attenta ricerca del credito societario e sovrana, mentre gli investitori potrebbero voler considerare strategie di copertura, quali l’acquisto di protezione tramite credit default swap (CDS) nel loro rispettivo Paese, al fine di ridurre il rischio sovrano.

Anche se, mentre scrivo questo articolo, siamo appena al mese di giugno, è come se avessimo già stipato un anno di eventi nei primi sei mesi del 2015.

L’anno è partito ad un passo vorticoso, con l’annuncio da tempo atteso da parte della Banca Centrale Europea (BCE) del via al suo programma di allentamento quantitativo (QE), messo quasi in secondo piano dalla sorprendente decisione della Banca Nazionale Svizzera di abbandonare l’ancoraggio valutario che legava il franco svizzero all’euro. La conseguente oscillazione del franco svizzero (la più ampia nell’arco di un giorno ad aver mai interessato una delle valute principali) assieme alla promessa di un pacchetto della BCE di 1,2 mila miliardi di euro, più considerevole del previsto, ha contribuito ad un certo punto a spingere diversi segmenti del mercato dei bund in territorio di rendimenti negativi. E per il primo mese dell’anno non era ancora finita qui: se aggiungiamo anche le elezioni greche e un gran totale di 14 tagli ai tassi da parte delle banche centrali in un solo mese.

I mercati sono andati in fibrillazione (e continuano a farlo) a causa della deflazione dell’Eurozona, ma offrire un contesto può rivelarsi illuminante. In questo caso, come mostra il grafico 1, lo stesso giorno di gennaio in cui la BCE ha annunciato la sua enorme espansione di bilancio, l’inflazione di fondo statunitense (in termini omogenei di confronto, escluso il settore immobiliare residenziale) era in realtà inferiore a quella dell’Eurozona ed era scesa più rapidamente. Nonostante ciò, a quel punto, i mercati si aspettavano comunque un aumento dei tassi statunitensi a giugno.

Grafico 1 - Inflazione di fondo in Stati Uniti e in Europa

Più recentemente, l’ondata di vendite dei titoli di Stato che ha visto il bund tedesco 2046 2,5%, “privo di rischio”, cadere di quasi il 20% in meno di tre settimane in seguito al picco del 20 aprile, ha nuovamente evidenziato il rischio di capitale corso dagli investitori obbligazionari quando le curve di rendimento subiscono un riprezzamento così rapido. Ciò ha posto ancora una volta l’accento sul comportamento disparato delle varie asset class obbligazionarie in un simile contesto, così come sull’importanza del posizionamento di duration sui rendimenti obbligazionari.

La Fed (Federal Reserve statunitense) deve far fronte a un dilemma: dopo oltre sei anni di tassi di interesse vicini allo zero, sarebbe ben felice di cominciare ad innalzarli. Una serie di sviluppi negli ultimi mesi (ovvero il rally azionario, la crescita del mercato dei mutui subprime per le automobili, e più generalmente, il ritorno di credito strutturato) ricordano spaventosamente il periodo 2003-2007, durante il quale la Fed mantenne i tassi a livelli troppo contenuti. Da qualche tempo ci sono anche dei primi segnali di crescita salariale a fare nuovamente capolino nel sistema. Gli ultimi dati mostrano l’inflazione salariale statunitense a 2,6% per il primo trimestre del 2015, superiore rispetto all’1,8% dell’anno precedente.

Al centro del cruscotto degli indicatori economici chiave del Presidente della Fed Janet Yellen, appaiono numerosi indicatori occupazionali, tra cui l’indice JOLTS (Job Openings and Labour Turnover Survey che fornisce un’indicazione sui volumi delle offerte di lavoro, sulle assunzioni e sul turnover) e le dimissioni (ovvero quando i dipendenti lasciano volontariamente l’attuale posizione di lavoro, spesso perché ne stanno accettando una nuova). Data la positività di questi indicatori, un aumento dei tassi dovrebbe a breve tradursi in realtà. Ma la Yellen e la Fed ricordano bene la lezione impartita dalla Grande Depressione: rimuovere gli stimoli troppo in fretta potrebbe provocare una ricaduta in recessione. La Fed è quindi obbligata a credere che sarà più facile combattere l’inflazione con un aumento dei tassi piuttosto che contrastare la deflazione in un mondo di tassi già prossimi allo zero. Ciò a sua volta aiuta a procrastinare il rischio potenziale per il quale tassi più elevati intensificherebbero il vigore del dollaro, con un ulteriore impatto sugli utili societari statunitensi.

C’è stato un decisivo cambiamento nei grafici “a punti” della Fed da inizio anno (le stime dei membri del FOMC – Federal Open Market Committee- relative al tasso obiettivo dei consolidati Fed fund come mostrato nei suoi cosiddetti grafici “a punti” sono utili quando si studiano i possibili esiti degli inasprimenti dei tassi). Questo cambiamento ha avvicinato le aspettative della Fed a quanto scontato attualmente dal mercato (si veda grafico 2). Nella sua incarnazione attuale, esso mostra l’importanza del premio alla scadenza e mette in luce il motivo per cui manteniamo la duration breve su tutta la nostra gamma di fondi. Ma questo elemento non può essere considerato in maniera isolata: l’eccesso di liquidità della BCE si sta esportando nel resto del mondo. Per una compagnia assicurativa tedesca che deve garantire ai propri clienti rendimenti dell’1,5%, è ovvio acquistare Treasury a 10 anni con rendimento 2%, piuttosto che bund allo 0,2%.

Grafico 2 - Stime dei membri FOMC per tasso obiettivo dei Federal Fund nel lungo termine

Europa: prospettive migliori all’orizzonte

Guardando all’Europa, possiamo dire che se stessimo progettando misure per generare deflazione, avremmo seguito lo stesso percorso intrapreso dai politici della regione di recente. Da un punto di vista monetario, le decisioni politiche hanno prosciugato circa il 40% del bilancio dell’Eurozona (anche se comunque non tanto quanto l’oltre 40% di fine 2013 ­ – si veda grafico 3). Da un punto di vista fiscale, l’eccessiva austerità e l’attenzione della Germania nei confronti del “Black Zero” (l’obiettivo del Paese di passare da un deficit di bilancio a un modesto surplus per la prima volta dal 1969) indicano la scarsa propensione o capacità di combattere la deflazione in questo modo. Le riforme strutturali sono state altrettanto lente.

Grafico 3 - L'atteggiamento della BCE sul fronte politico

Ma ci sono ora (finalmente!) alcune buone notizie, con l’introduzione di un QE potenzialmente illimitato, la probabilità di un declino dell’austerità fiscale e alcuni modesti segnali di riforme strutturali. La notizia potenzialmente ancora migliore è che il programma della BCE di acquisti di titoli garantiti da attività (noti anche come ABS, o asset-backed securities) non è ancora realmente iniziato. Questo programma potrebbe impiegare un po’ di tempo a guadagnare impeto ma, se lo facesse, dovrebbe essere in grado di offrire alle banche una buona opportunità per eliminare i prestiti stagnanti dai propri bilanci, riadattandoli e vendendoli alla BCE a profitto.

Anche se è ancora presto per attribuire risultati significativi al programma di QE della BCE, l’Eurozona è ufficialmente uscita dal territorio deflazionistico in aprile, dopo quattro mesi di prezzi in caduta.  Questa cifra di inflazione leggermente più elevata, assieme al recupero dei prezzi del greggio, ad una valuta unica più debole, e a un miglioramento dei dati economici, ha creato una nuova domanda di asset indicizzati all’inflazione. A nostro avviso, nonostante il forte rally dei mesi scorsi, i tassi di breakeven europei continuano a scontare livelli di inflazione troppo ridotti nel medio termine, e pertanto titoli di Stato indicizzati a breve termine offrono un buon valore rispetto ai titoli governativi convenzionali.

Credito: fattori tecnici, valutazioni e fondamentali indicano valore

Di recente, abbiamo iniziato a individuare migliore valore relativo su base selezionata nel mercato high yield, in seguito all’andamento sottoperformante dei segmenti dell’asset class nell’ultima parte del 2014. È importante notare che, in futuro, i pacchetti di iniezioni di liquidità della BCE e della Banca del Giappone dovrebbero sostenere la domanda di obbligazioni high yield.

Alla fine dello scorso anno, ho scritto della mia preferenza per il segmento dei titoli a tasso variabile (FRN). Questo mercato resta un mezzo valido per trarre vantaggio da un ulteriore rafforzamento del dollaro USA, dagli aumenti dei tassi da parte della Fed e dal miglioramento dei settori statunitensi societario e bancario. Ho inoltre individuato valore in obbligazioni corporate statunitensi convenzionali. I differenziali statunitensi hanno registrato un ampliamento nel 2014, in parte dovuto all’enorme attività di nuove emissioni e agli effetti a catena del crollo del greggio sulle imprese energetiche verso la fine dell’anno. Attualmente le obbligazioni societarie investment grade sembrano allettanti, in base ai tre fattori chiave: elementi tecnici, valutazioni e fondamentali. Inoltre, la liquidità è tornata di nuovo alla ribalta sulla stampa negli ultimi mesi, e gli investitori hanno ben ragione, nel contesto attuale, ad esserne consapevoli.

Paesi Emergenti: i titoli sovrani sembrano più sicuri di quelli societari

Non è una novità se ci descriviamo come ribassisti di lunga data sulla Cina, una posizione che sembra completamente in linea con il rallentamento della crescita cui stiamo assistendo in questo Paese.

Da qualche tempo ormai sono cauto sui Paesi Emergenti, ma come sempre esistono due facce della stessa medaglia. I titoli sovrani dei Paesi Emergenti, con considerevoli prestiti in valuta locale piuttosto che in dollari statunitensi, non sono in posizioni poi così burrascose e possono esercitare un certo controllo sul loro stesso destino. La situazione non è altrettanto rosea per gli emittenti societari della regione, molti dei quali non hanno coperto le loro passività in dollari e saranno quindi particolarmente vulnerabili una volta che tassi più elevati avranno preso piede.

Ancora una volta, è essenziale agire in maniera selettiva. Ad esempio, ho acquistato debito messicano e colombiano in valuta locale dall’inizio dell’anno per via del sell-off aggressivo in entrambe le valute nel 2014.

Valuta: si prevede un ulteriore vigore del dollaro statunitense

Il vigore del biglietto verde è stato uno dei principali argomenti del 2014 e nella prima parte del 2015, e ci aspettiamo che questo vigore continui, basandoci sulla forza relativa dell’economia statunitense e sulla probabilità di aumenti dei tassi più imminenti negli Stati Uniti che altrove.

Detto ciò, data la considerevole crescita del biglietto verde rispetto ad altre valute chiave, come l’euro, dall’inizio dell’anno, ho tratto alcuni profitti dalla valuta nel primo trimestre in quanto l’aumento del dollaro era stato davvero estremo. Tuttavia, nelle ultime settimane, ho ripreso a incrementare l’esposizione al dollaro in quanto credo che la Fed sarà la prima delle banche centrali ad innalzare i tassi di interesse, e i differenziali di tasso di interesse saranno probabilmente uno dei fattori determinanti sull’andamento delle valute nei prossimi dodici mesi.

Ora che va scemando il polverone seguito ai risultati delle elezioni britanniche, il recente vigore della sterlina potrebbe correre dei rischi. A nostro avviso, una Banca d’Inghilterra accomodante, il deficit di bilancio molto elevato del Regno Unito, le rinnovate prospettive di un referendum previsto per il 2017 sull’appartenenza britannica all’UE, avranno probabilmente un impatto sulla valuta. Pertanto, restiamo cauti sulla sterlina. Se da una parte saremmo portati a pensare che il 2015 non potrà di certo serbarci ancora molte sorprese, in realtà la seconda metà dell’anno potrebbe rivelarsi frenetica quanto la prima.

Negli ultimi anni è diventata un’abitudine per gli strateghi formulare previsioni fosche per i mercati obbligazionari all’inizio di gennaio. Eppure il 2014, come gli anni immediatamente precedenti, è riuscito a smentire quasi tutte le aspettative negative. Mentre i mercati azionari hanno offerto guadagni dignitosi per gran parte di quest’anno, la prevista disfatta dell’obbligazionario non si è concretizzata.

All’inizio del 2014 era opinione di consenso che i rendimenti dei Treasury a 10 anni sarebbero saliti al di sopra del 3,25%. Il dato si basava sulla previsione che la Federal Reserve avrebbe messo fine al programma di allentamento quantitativo (QE) durato sei anni, da cui era derivato un ampliamento del bilancio a oltre 4,5 trilioni di dollari, e che la crescita statunitense sarebbe diventata in grado di autoalimentarsi.

A oggi, l’economia USA cresce a un buon ritmo e la Fed ha effettivamente archiviato il QE in ottobre. Nonostante ciò, i rendimenti dei titoli di Stato globali sono crollati: i Treasury decennali offrivano un 2,2% alla fine di novembre, mentre i tassi europei sono ai minimi storici assoluti (si veda il grafico 1). Lo stesso vale per il Giappone. Dunque, cosa spiega l’ulteriore collasso dei rendimenti obbligazionari che ha colto di sorpresa quasi tutti gli strateghi e gli economisti di Wall Street (con la notevole eccezione di Steven Major di HSBC, che aveva previsto i Treasury a 10 anni al 2,1% entro fine anno), e cosa significa questo per gli investitori obbligazionari nel 2015?

Clima invernale, contesto geopolitico infuocato

Cominciamo con un riassunto. Il 2014 è iniziato con un’ondata di maltempo negli Stati Uniti responsabile di un PIL complessivamente molto deludente nel primo trimestre. Pochi mesi dopo aver lasciato la guida della Fed, Ben Bernanke ha organizzato una serie di cene sponsorizzate da hedge fund, durante le quali ha detto a chiunque volesse ascoltarlo che il quadro di normalità dipinto dal mercato era troppo roseo: tassi, rendimenti, crescita e inflazione sarebbero stati, secondo la Fed, inferiori ai livelli scontati dal mercato. Poi sono arrivate le ondate di eventi geopolitici: la crisi Russia/Ucraina, la violenza in Medio Oriente, le proteste anticinesi a Hong Kong ed Ebola. Questi sviluppi hanno azzerato la propensione al rischio, determinando una fuga degli investitori verso la qualità. Gli asset percepiti come beni rifugio, come i titoli governativi di alta qualità, hanno beneficiato dell’incertezza provocata da tali fattori geopolitici.

IL VERO LIVELLO DI CRESCITA DEL PIL CINESE

Forse una delle domande più frequenti riguardo al decennio di crescita record della Cina è se sia effettivamente vero. In genere, ci sono diversi motivi per dubitare dell’affidabilità dei dati sul PIL cinese. Prima di tutto, la struttura del governo locale in Cina include vari disincentivi politici alla pubblicazione di cifre accurate sul PIL. I funzionari locali vengono promossi quasi esclusivamente sulla base dei tassi di crescita delle regioni loro affidate, il che li spinge a indicare dati di PIL in ascesa. A livello di governo centrale, sembra politicamente necessario che il PIL continui ad aumentare, in particolare adesso che gli amministratori sono pressati a sostenere la crescita di fronte a un’economia in fase di ribilanciamento.

Uno dei motivi all’origine dello scetticismo degli economisti riguardo alle cifre del PIL cinese è che l’Istituto nazionale di statistica della Cina impiega solo due settimane per raccogliere i relativi dati, contro le sei settimane necessarie a Hong Kong (che è un Paese infinitamente più piccolo) o le otto degli Stati Uniti.

Persino il premier cinese, Li Keqiang, ha espresso qualche dubbio al riguardo, durante una cena con l’ambasciatore statunitense in Cina nel 2007, affermando che le cifre erano “statistiche prodotte da persone e quindi inaffidabili”. Li aveva suggerito di concentrarsi piuttosto su tre punti dati, il consumo di energia elettrica, il volume dei trasporti ferroviari e i prestiti bancari, per valutare meglio il progresso economico della Cina.
Da allora, gli economisti hanno cercato di mettere insieme indici alternativi per misurare la crescita cinese effettiva. Abbiamo parlato di recente del cosiddetto “Indice Li Keqiang” di Citigroup, che utilizza i tre indicatori citati sopra. Come ampiamente prevedibile, indicaun rallentamento della crescita più marcato di quello suggerito dalle statistiche ufficiali cinesi.

I livelli di debito della Cina sono aumentati in misura molto consistente nell’ultimo decennio, anche se grazie alle politiche recenti finalizzate a limitare l’offerta di nuovi crediti, ora questa tendenza sta rallentando. Il mercato immobiliare è uno dei termometri più sensibili di tale fenomeno, con i prezzi delle abitazioni che ultimamente evidenziano un declino mensile in circa il 75% delle città cinesi. Vari segnali indicano anche che il mercato è saturo, con livelli di scorte stratosferici. Eppure, al di là di tutto, la crescita del PIL nel terzo trimestre ha superato le aspettative, con un tasso annualizzato del 7,3%.
Secondo alcuni, l’ “Indice Li Keqiang” potrebbe aver perso affidabilità, da quando quegli indicatori sono stati menzionati. Nel 2007, ai tempi cui risale quella conversazione, l’economia cinese e la provincia di Liaoning in particolare facevano molto più affidamento sull’industria pesante. Intanto la struttura dell’economia nazionale è profondamente cambiata: oggi a generare la quota maggiore del PIL è il settore dei servizi, che richiede un metodo di misurazione molto diverso.

Vista la difficoltà di valutare il livello reale del PIL cinese, potrebbero essere interessanti alcuni dati sui volumi, come quelli relativi all’energia elettrica e ai trasporti ferroviari, meno soggetti a manipolazioni da parte degli amministratori locali. Tuttavia, queste cifre rivelano solo parte della realtà e devono essere considerate unitamente a una gamma più ampia di indicatori economici. In ogni modo, le varie fonti di dati sembrano convergere intorno al punto che sosteniamo da molti anni, ossia che la crescita della Cina sta rallentando e questo produrrà conseguenze rilevanti per quei Paesi che hanno fatto sempre più affidamento su un’espansione vigorosa dell’economia cinese.

Infine, ed è forse l’aspetto più importante in vista del 2015, siamo alle prese con una minaccia di deflazione globale: il nuovo obiettivo dei banchieri centrali è riportare l’inflazione al 2%, e non più ridurla. I livelli recenti dell’indice dei prezzi al consumo (IPC), pari all’1,7% negli Stati Uniti e all’1,3% nel Regno Unito, destano qualche perplessità, ma è l’Eurozona con l’inflazione annua a un misero 0,4% la vera fonte di preoccupazione, soprattutto considerando che cinque economie della regione periferica sono già in deflazione (Grecia, Spagna, Italia, Slovenia e Slovacchia).

Molti si chiedono perché il 2014 abbia smentito le previsioni. Secondo Larry Summers, ex Segretario di Stato USA e consulente economico di Barack Obama, le economie sviluppate stanno entrando in un periodo di “stagnazione secolare”, ossia un ambiente in cui la crescita nel mondo ricco si arresta gradualmente a causa di un massiccio sottoinvestimento nel potenziale futuro. Se dovesse instaurarsi una stagnazione secolare, l’unico modo di alimentare la crescita sarebbe lo sviluppo di mini-bolle degli asset che spingano verso l’alto i livelli di consumo.

Un altro motivo indicato da alcuni investitori per spiegare il calo dei rendimenti visto quest’anno è l’alto livello globale di risparmi e di liquidità, dopo le varie ondate di allentamento quantitativo delle banche centrali. Altri suggeriscono che i rendimenti sono bassi perché i governi fanno troppo affidamento sulle banche centrali e non si adoperano abbastanza per favorire una crescita economica sostenibile.

Di sicuro c’è del vero nella tesi secondo cui, se il governo statunitense non fosse precipitato nel baratro fiscale nel 2013, se la Commissione Europea e il governo tedesco avessero adottato un approccio meno rigido in tema di austerità e riduzione del deficit e la Banca centrale europea (BCE) avesse optato per un’espansione anziché una contrazione del proprio bilancio negli ultimi anni, forse non ci troveremmo in questa situazione. Ma le nuove pressioni deflazionistiche non derivano solo dal mondo occidentale. L’economia cinese sta rallentando inesorabilmente (si veda il riquadro intitolato Il vero livello di crescita del PIL cinese). Questo non è necessariamente un problema per la Cina in sé: le istituzioni sono infatti molto abituate a gestire localmente le diverse parti della sua economia e delle sue regioni molto vaste, e il Paese possiede Treasury statunitensi per circa 1300 miliardi di dollari, che al bisogno potrebbe vendere per finanziare uno stimolo fiscale.

Le ricadute di questo rallentamento della Cina sono molto pesanti. La crescita inferiore implica meno investimenti in infrastrutture, edilizia abitativa e altri progetti di costruzione. I prezzi delle materie prime potrebbero crollare, in particolare quelli dei minerali e metalli esportati da Paesi come il Cile, il Sudafrica e l’Australia. I consumatori cinesi potrebbero avere un reddito disponibile inferiore per acquistare il latte in polvere di qualità dalla Nuova Zelanda e, da parte loro, le imprese potrebbero spendere meno in beni strumentali tedeschi o ruspe statunitensi. E significa che la pressione al ribasso sui prezzi energetici globali coincide con la sovrabbondanza di petrolio saudita e l’autosufficienza energetica degli Stati Uniti frutto della rivoluzione dello scisto.

Questo collasso dei prezzi del petrolio (si veda il riquadro intitolato Lo shock petrolifero positivo), da oltre 120 dollari al barile a meno di 75, è destinato ad avere un impatto significativo sull’inflazione complessiva, soprattutto negli Stati Uniti dove con le accise basse sulla benzina alla pompa, il deprezzamento del petrolio si ripercuote rapidamente e in modo aggressivo sull’indice IPC. Nel Regno Unito e in Europa, dove il costo del carburante è riconducibile per la maggior parte alle accise, l’impatto si sente lo stesso, ma è più attenuato.

Deflazione: il nuovo nemico

Quindi, buone notizie per i consumatori? Assolutamente sì. La storia dimostra che i movimenti dei costi energetici sono forse il fattore unico principale dei cambiamenti a livello della crescita economica. Di conseguenza, il 2015 dovrebbe essere un anno in cui i tassi di crescita finalmente ottengono l’aiuto necessario per raggiungere la cosiddetta “velocità di fuga”. È il motivo isolato principale per essere allegri.

Ma per certi versi, i banchieri centrali vedranno la debolezza recente dei prezzi delle commodity (e, per ragioni del tutto scollegate, dei prezzi alimentari) nella migliore delle ipotesi come un intralcio. Con l’inflazione effettiva ampiamente al di sotto di quegli obiettivi del 2%, le aspettative di inflazione futura del mercato e dei consumatori in deterioramento e i tassi d’interesse già prossimi allo zero, la deflazione sembra un’ipotesi molto concreta. In effetti, si è diffuso il timore non solo che si stiano creando bolle degli asset, ma che la situazione vada verso una “giapponificazione”, ossia un contesto in cui sia i consumi che gli investimenti societari vengono perennemente rinviati in quanto, alla luce dei prezzi in calo, i singoli e le imprese ritengono che non sia mai una buona idea comprare qualcosa oggi.

Finora la crisi nell’Eurozona è stata caratterizzata da interventi dell’ultimo minuto, a quanto pare decisi con estrema riluttanza da parte della Germania. Di più, tale azione è stata indotta dai mercati finanziari, piuttosto che dai dati economici deludenti, da pressioni politiche dei governi periferici o meno ancora da proteste di piazza. Il caso attuale potrebbe essere leggermente diverso: per la prima volta, anche l’economia tedesca è in affanno e si scopre incapace di trovare compratori per le proprie esportazioni. Ma con la Germania sempre concentrata sul “black zero”, ossia l’obiettivo di portare il bilancio da un deficit a un piccolo surplus per la prima volta dal 1969, sembra improbabile che l’espansione fiscale giochi un ruolo di rilievo in qualsiasi misura concertata di lotta alla deflazione. Dunque resta solo la BCE, a sua volta responsabile delle difficoltà attuali per aver adottato una politica di rigore.

LO SHOCK PETROLIFERO POSITIVO

La traiettoria dei prezzi del petrolio è stata tutt’altro che costante, negli ultimi decenni. Nel 1973 i maggiori paesi industriali del mondo si trovarono a fare i conti con un embargo del petrolio mediorientale all’origine di una grave carenza di carburanti. La crisi che ne seguì provocò una stagnazione della crescita economica in diversi Paesi, inclusi Stati Uniti e Regno Unito, dovuta ai prezzi del petrolio quadruplicati. Poi nel 1979 la produzione di petrolio crollò a seguito della rivoluzione in Iran, innescando un’altra impennata dei prezzi del greggio.

Gli anni Novanta del secolo scorso hanno visto un nuovo rialzo dei prezzi, questa volta dovuto all’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq. Più di recente, una serie di fattori riconducibili alla dinamica di domanda e offerta ha contribuito all’ascesa del petrolio fra il 2003 e il 2008.

Stavolta però è diverso: i prezzi del petrolio sono crollati attestandosi ai minimi degli ultimi cinque anni. Storicamente, le variazioni significative del prezzo del petrolio sono derivate dall’offerta limitata associata a una domanda elevata, con un conseguente impatto frenante sul PIL mondiale. Tuttavia, in tempi recenti, il prezzo del petrolio è stato spinto verso il basso da una produzione sovrabbondante. L’eccesso di offerta dagli Stati Uniti e dai Paesi dell’OPEC ha provocato una disponibilità enorme in un contesto di consumo piatto. Nel frattempo, i funzionari dell’OPEC hanno confermato, dopo la riunione di ottobre, che l’organizzazione non ha alcuna fretta di tagliare la produzione.

Lo shock di offerta positivo attuale trasferisce il reddito reale dai produttori alle famiglie, il che dovrebbe avere un impatto sull’economia in senso ampio, attraverso l’incremento della spesa e della domanda di altri beni. Con i prezzi petroliferi in calo, l’economia globale dovrebbe beneficiare di un impulso stimato a circa 200 miliardi di dollari. Come fattore di produzione, il petrolio scontato rende economicamente fattibile generare più PIL con la tecnologia esistente. Per quanto sia deflazionistico nel breve termine, questo fenomeno dovrebbe rivelarsi positivo per la crescita mondiale in un orizzonte temporale più lungo, dato che il deprezzamento del petrolio offre un enorme stimolo ai consumi che, a parità di altri fattori, contribuirà a risollevare il PIL globale nel 2015.

Alla fine, anche Francoforte ha iniziato a comprare covered bond e ABS nel corso dell’autunno, e reintrodotto un programma di prestiti mirati a lungo termine (il cosiddetto TLTRO), al fine di stimolare il credito al settore privato. Finora nessuna di queste iniziative si è rivelata il “grande bazooka” in grado di segnare una svolta, come è stato il caso del QE adottato dalla Fed, dalla Banca d’Inghilterra e ora persino dalla Banca del Giappone.

Ci sono altri segnali di speranza: lo scarso interesse riscosso inizialmente dalla linea di credito TLTRO probabilmente è riconducibile almeno in parte all’annuncio dei risultati degli stress test condotti dalla stessa BCE. Ora che la Revisione della qualità degli asset è conclusa, e le banche sanno se l’hanno superata oppure no, bisogna provvedere agli aumenti di capitale. Di conseguenza, ci aspettiamo nei prossimi mesi l’emissione di un’ampia fetta del debito bancario cosiddetto AT1 (si veda il riquadro intitolato L’ascesa costante dei CoCos). Significa anche che ci siamo lasciati alle spalle l’incertezza sulla stabilità e le esigenze di capitale del settore bancario dell’Eurozona, e che le banche possono prestare ai propri clienti il denaro ricevuto dalla BCE a tassi scontati. Ci attendiamo che la domanda di TLTRO aumenti, contribuendo a invertire la contrazione del bilancio della BCE e ad alimentare la domanda finale.

Sebbene non abbiano ancora adottato un allentamento quantitativo vero e proprio, il presidente della BCE, Mario Draghi, e altri componenti del Consiglio hanno confermato che resta un’opzione praticabile, nonostante gli aspetti giuridicamente controversi evidenziati dalla Corte Costituzionale tedesca. Se però l’inflazione non dovesse stabilizzarsi nei prossimi mesi, ci aspettiamo di vedere un vero QE nel 2015, con acquisti di obbligazioni distribuiti fra gli Stati membri dell’Eurozona, in proporzione all’importanza delle rispettive economie. Ciò dovrebbe comportare un generale abbassamento dei rendimenti in tutta l’area della moneta unica e un’ulteriore contrazione degli spread delle obbligazioni spagnole e italiane.

È chiaro, comunque, che i mercati obbligazionari hanno già scontato un ampio programma di QE da parte della BCE. Il rendimento dei bund decennali allo 0,7% è già ampiamente al di sotto del livello inferiore all’1,5% raggiunto dai Treasury di pari scadenza nel 2012, all’apice del QE della Fed, e non molto distante dallo 0,4% toccato in Giappone al terzo decennio di crisi economica e dopo QE, tassi zero e una deflazione prolungata (si veda il grafico 3).

Considerando però quanto sono caduti in basso i rendimenti obbligazionari dell’Eurozona “core” senza un vero e proprio QE, quale potrebbe essere l’impatto reale di una politica di questo tipo? La deflazione è arrivata in Europa, nonostante i costi di finanziamento sempre più bassi per il settore sia pubblico che privato. L’impatto più rilevante potrebbe manifestarsi attraverso la valuta.

L’ASCESA COSTANTE DEI COCOS

L’area del mercato obbligazionario europeo che ha mostrato la crescita più vivace nel 2014 è quella dei titoli ibridi, quegli strumenti dai nomi criptici come CoCos (contingent capital notes) e AT1 (titoli Tier 1 aggiuntivo). La loro ascesa riflette una spinta più ampia a raccogliere capitali freschi, in seguito alle importanti modifiche normative volte a ridurre il rischio che i governi si trovino a dover salvare le banche in momenti di difficoltà, come è accaduto durante la crisi finanziaria. Le regole includono nuovi requisiti di capitale imposti da Basilea III.

I CoCos e gli strumenti analoghi stanno acquisendo popolarità sia fra le banche che tra le autorità di vigilanza, per via del modo in cui abbinano le caratteristiche di capitale e di debito e del fatto che possono essere profondamente subordinati nella struttura del capitale. Come è facile dedurre, si tratta di strumenti finanziari complessi, che vale la pena di analizzare bene prima di investire. L’ha riconosciuto nel Regno Unito la Financial Conduct Authority (FCA), che in ottobre ha deciso di vietarne la vendita sul mercato retail di massa.

A nostro parere, se acquistati a un prezzo conveniente, i CoCos possono rivelarsi, su base selettiva, una fonte preziosa di rischio e rendimento aggiuntivi nell’ambito di un portafoglio obbligazionario diversificato. È importante disporre di un ampio team dedicato di analisti del credito finanziario che possano condurre un esame fondamentale, incontrare i dirigenti delle società emittenti e comprendere i possibili rischi insiti nell’investire in tali strumenti. Un investimento in CoCos comporta rischi specifici che vanno oltre quelli tipici delle obbligazioni societarie, come il rischio di valutazione, annullamento della cedola, inversione della struttura di capitale, rinvio dell’esercizio dell’opzione call e quello legato al livello del trigger di conversione. Peraltro, i CoCos costituiscono un’asset class emergente ed è ancora difficile prevederne l’andamento in un ambiente di stress.

I mercati finanziari tendono a vedere il QE come una svalutazione monetaria: basta guardare allo yen da quando il primo ministro giapponese, Shinzo Abe, ha annunciato la più acuminata delle sue tre frecce, ossia l’enorme espansione del bilancio della Banca del Giappone, o per contrasto, alla forza del dollaro statunitense in vista della chiusura del piano di acquisti di obbligazioni da parte della Fed. Sembra probabile che la debolezza dello yen e dell’euro continui nel 2015 e oltre. Mentre il dollaro USA ha visto un notevole rimbalzo dai livelli di metà 2014, il vigore attuale sembra poca cosa in confronto ai mercati rialzisti storici.

Mercato rialzista per il dollaro USA all’orizzonte

Il dollaro statunitense è sostenuto non solo dalla relativa contrazione del bilancio della Fed rispetto a quello della Banca del Giappone e della BCE, ma anche e soprattutto da fattori come il forte potenziale di crescita nei prossimi anni, la probabilità che quella USA sarà la prima delle grandi economie a vedere un rialzo dei tassi, e il miglioramento del saldo con l’estero. Per quanto gli Stati Uniti siano tuttora in deficit, con importazioni superiori alle esportazioni, la drastica svolta sul fronte dell’energia implica che, entro il prossimo decennio circa, l’America potrebbe diventare autosufficiente dal punto di vista energetico, il che comporterebbe di fatto un azzeramento del disavanzo corrente (si veda il grafico 4).

Continuiamo a considerare attraente il dollaro statunitense, ma non il mercato dei Treasury. Un modo di trarre vantaggio dall’atteso rafforzamento del biglietto verde, dai rialzi dei tassi della Fed e dal miglioramento dello stato di salute delle imprese e delle banche americane è comprare titoli a tasso variabile (FRN). Contrariamente alle obbligazioni tradizionali, questi strumenti non hanno cedole fisse, ma offrono un tasso d’interesse legato ai tassi del mercato monetario. Quindi, man mano che la Fed aumenta il costo del denaro, probabilmente fra la metà e il secondo semestre del 2015, aumenterà anche la cedola di quei titoli.

Le stime dei membri del FOMC (Federal Open Market Committee) riguardo al tasso sui Fed fund a lungo termine, riprodotte nel cosiddetto grafico “a punti”, aiutano a immaginare il possibile scenario di contrazione monetaria (si veda il grafico 5). Questi dati sono una guida non solo per la direzione che dovrebbero prendere i rendimenti obbligazionari (per inciso: verso l’alto), ma anche per l’entità dello spostamento. Sulla base dei punti, e considerato che i rendimenti dei Treasury previsti erano intorno ai punti più alti 12 mesi fa, abbiamo scoperto che l’inizio del 2014 era un buon momento per aggiungere duration. Saltiamo ora alla fine dell’anno e, dopo l’ampio rally dei rendimenti visto finora, è vero il contrario: la duration breve si presenta come il posizionamento migliore (si veda il grafico 6).

Potrebbe arrivare il momento di assumere una posizione di duration negativa, magari nel 2015? Forse sì, anche se è bene ricordarsi che una duration negativa implica un carry negativo, quindi bisogna che la scelta si riveli giusta anche solo per andare pari. In altre parole, i rendimenti devono aumentare perché i guadagni restino uguali. Tuttavia, un vero mercato orso per gli asset a reddito fisso sembra improbabile prima che l’inflazione cominci a risalire verso il livello obiettivo. Con gli aumenti dei salari ancora molto contenuti, nonostante qualche segnale di contrazione in alcune aree del mercato del lavoro statunitense, i tempi di un rialzo sostenuto dell’inflazione restano incerti.

Le sfide per il mondo sviluppato

Mentre le prospettive dell’economia britannica restano relativamente solide, abbiamo visto un netto peggioramento delle aspettative negli ultimi mesi e il Regno Unito ha perso, dopo averla mantenuta per gran parte dell’anno, la pole position di Paese destinato a innalzare per primo i tassi d’interesse. Come sottolineato da David Cameron all’inizio di novembre, “le spie rosse di allarme stanno lampeggiando di nuovo sul cruscotto dell’economia globale”, con l’Eurozona sull’orlo di un’altra recessione, la crescita rallentata nei mercati emergenti, lo scarso progresso delle trattative sul commercio globale e i rischi geopolitici.

FEBBRE DA REFERENDUM IN REGNO UNITO

L’impegno di offrire agli elettori la possibilità di decidere con un referendum se restare nell’Unione Europea o uscirne, assunto nel 2013 dal primo ministro David Cameron, ha conquistato il centro della scena quest’anno, in particolare dopo il voto incerto fino all’ultimo di settembre scorso sull’indipendenza della Scozia.

Cameron ha adottato una posizione sempre più critica nei confronti dell’UE negli ultimi mesi, nel tentativo di contrastare la crescente popolarità dell’UKIP (Partito per l’indipendenza del Regno Unito), la cui campagna è incentrata sull’uscita dal blocco. Se i Conservatori dovessero tornare al potere a seguito delle elezioni parlamentari a maggio 2015, ci sarebbe un referendum sull’UE nel 2017.

Lo scarto relativamente ridotto fra le due fazioni in campo nella consultazione scozzese (alla fine, circa il 55% ha votato a favore della permanenza nel Regno Unito, anche se i sondaggi di opinione nelle settimane immediatamente precedenti al voto indicavano una distanza molto più risicata) ha provocato una flessione della sterlina e un’ondata di vendite su vari titoli azionari di società con sede in Scozia.

Per quanto di breve durata – e superata rapidamente dopo l’annuncio della vittoria del ‘no’ – la volatilità ha mostrato ai mercati cosa potrebbe succedere in vista di un referendum sull’UE. Un eventuale voto a favore della “Brexit” potrebbe scardinare tutte le previsioni. Se è vero che quasi tutti gli elettori attualmente sostengono di voler restare nell’UE, il referendum scozzese offre un esempio di come le intenzioni di voto possano restare fluide fino al giorno stesso della consultazione.

L’ampio affidamento del Regno Unito sull’Eurozona, in particolare, sta già cominciando a farsi sentire, come testimonia il rallentamento dei dati di export e produzione manifatturiera. Se a questo aggiungiamo le elezioni politiche in programma nel 2015 e l’ipotesi di “Brexit” (ovvero l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea, si veda il riquadro intitolato Febbre da referendum in Regno Unito) sempre più al centro del dibattito, l’anno prossimo si prospetta dominato dall’incertezza.

L’abbiamo già detto in passato, ma l’enorme disavanzo corrente del Regno Unito resta motivo di grave preoccupazione. Sulla base di questo dato, la valuta appare tuttora fondamentalmente sopravvalutata e un deficit così elevato, oltre ad essere insostenibile dal punto di vista economico, in passato ha preceduto un crollo della sterlina.

Per quanto riguarda il resto del mondo sviluppato, manteniamo la sottoesposizione allo yen, in vista di un clima probabilmente ancora avverso, considerati i persistenti problemi di espansione economica e l’esigenza di ulteriori stimoli in Giappone. Tuttavia, i prezzi petroliferi bassi e l’annuncio recente sul rinvio del prossimo aumento dell’imposta sui consumi potrebbero essere la giusta combinazione per trasformare il Giappone nella sorpresa positiva del 2015, sul fronte della crescita.

Mercati emergenti: il supporto resiste

In generale i mercati obbligazionari emergenti sono andati bene negli ultimi 12 mesi, nonostante l’attenzione degli investitori fosse concentrata sulla graduale chiusura del programma di QE negli Stati Uniti e le ondate di volatilità provocate dagli eventi geopolitici. Su questo sfondo, l’umore nei confronti dell’asset class ha beneficiato dei tassi d’interesse sempre molto bassi e dell’inflazione modesta nelle economie sviluppate, che hanno sostenuto la domanda di strumenti più remunerativi, come le obbligazioni dei mercati emergenti.

La crescita rapida del mercato dei titoli societari dell’area emergente negli ultimi anni sta ampliando il ventaglio di opportunità in questa classe di attivi. Le dimensioni della sottoclasse costituita dalle emissioni societarie denominate in valuta forte sono raddoppiate dal 2010, raggiungendo i 1300 miliardi di dollari – in linea con il mercato high yield statunitense. Includendo le obbligazioni in valuta locale, la Banca dei regolamenti internazionali stima che il mercato dei titoli societari emergenti avesse un valore complessivo di quasi 4 mila miliardi di dollari alla fine del 2013.

Dal punto di vista valutativo, le obbligazioni societarie dei mercati emergenti possono risultare appetibili rispetto ai titoli analoghi del mondo sviluppato, dopo la performance costantemente positiva di questi ultimi. Tuttavia, è sempre essenziale investire su base selettiva, effettuando un’attenta e approfondita analisi del credito. Il grafico 7 mostra che per una classe di merito simile, i crediti societari dei mercati emergenti offrono spread più elevati di quelli statunitensi ed europei, segno che gli investitori ottengono una remunerazione per il rischio di credito, in aggiunta al premio per aver scelto asset dei mercati emergenti.

Credito: ora serve più attenzione alla qualità

I guadagni facili chiaramente sono già stati realizzati nei mercati delle obbligazioni societarie e high yield. Dal culmine della crisi del credito, gli spread sono crollati da un picco di 511 punti base (bps) nel 2008 ai circa 123 bps attuali nell’area investment grade e da 2193 a 488 bps nel segmento high yield, nello stesso periodo. La buona notizia è che a ogni livello di rating, fatta eccezione per i titoli CCC, gli investitori continuano ad essere sovraremunerati per il rischio di default: in altre parole, gli spread del credito implicano un livello di default più alto di quello che riteniamo prevedibile (si veda il grafico 8). La brutta notizia è che quasi tutto l’extra spread è riconducibile probabilmente a un premio di illiquidità (si veda il riquadro intitolato Il prezzo della liquidità), che non è necessariamente un problema per gli investitori a lungo termine, ma potrebbe essere una fonte di volatilità nel breve periodo.

Per quanto si noti di nuovo qualche segnale di comportamento negativo nei mercati del credito, il fenomeno è molto ridotto rispetto agli anni precedenti alla crisi iniziata nel 2008. Resta però il fatto che, soprattutto negli Stati Uniti, stanno tornando i cosiddetti “spiriti animali”, come testimoniano i livelli di indebitamento societario in ascesa, l’attività più vivace di fusioni e acquisizioni e l’impennata di emissioni di titoli CCC e di debito con cedole in natura (PIK). Sono in aumento anche le distribuzioni di dividendi e i riacquisti di azioni, per quanto i ricchi margini di profitto delle società finora sembrano avere un impatto solo limitato sulla spesa per investimenti, il che è un peccato per la crescita globale.

Mentre il tasso di default è ancora estremamente basso su scala mondiale, non mancano le avvisaglie che suggeriscono di cominciare a prestare più attenzione al deterioramento della qualità del credito. Nel complesso, le aziende hanno ancora quantità enormi (forse anche eccessive) di liquidità in bilancio, ma vari segnali indicano che la crescita dei margini di profitto è arrivata al capolinea.

Diverse società ad alto rendimento hanno avuto problemi quest’anno e, sebbene le difficoltà siano derivate da situazioni specifiche delle singole entità, non è escluso che il fenomeno sia la spia di una tendenza generale alla sottovalutazione dei rischi da parte degli investitori high yield. D’altronde, un aumento dei debiti in sofferenza può essere una fonte di opportunità: laddove riteniamo che l’attività sottostante sia solida e gli obbligazionisti godano di una posizione giuridicamente forte, potremmo investire talvolta in strumenti di debito di questo tipo.

Come ha ben dimostrato l’esperienza degli ultimi anni, ci vuole un certo coraggio per formulare previsioni aggressive riguardo ai mercati obbligazionari per l’anno prossimo. Nondimeno, con i consistenti volumi di QE ancora all’orizzonte in varie economie globalmente rilevanti, come il Giappone e l’Eurozona, la prospettiva di deflazione, e non di inflazione, che tiene svegli i banchieri centrali, e i tempi dei rialzi dei tassi d’interesse rinviati in quasi tutte le economie, non è poi così azzardato definire le condizioni attuali relativamente favorevoli per gli investitori obbligazionari. Detto questo, come ha dimostrato l’inizio del 2014, bastano pochi mesi burrascosi, in senso più o meno figurato, perché tutte le migliori stime vengano smentite.

IL PREZZO DELLA LIQUIDITÀ

La negoziazione di obbligazioni era parte integrante del modello di business delle grandi banche. Le cose sono cambiate dopo la crisi finanziaria del 2008, quando un’ondata di nuove regole ha costretto le banche a ridurre l’indebitamento e a ritirarsi dalle attività di market-making. Negli ultimi anni abbiamo visto le banche sempre meno disposte a detenere obbligazioni societarie in bilancio fino a quando non fosse possibile individuare un acquirente o un venditore.

Gli investitori sono comprensibilmente preoccupati di ciò che accadrà se tutti decideranno di vendere titoli societari in massa. In uno scenario estremo, l’assenza totale di attività sul mercato secondario intaccherebbe la capacità dei gestori di prodotti a reddito fisso di liquidare le posizioni in obbligazioni societarie, a prescindere dal fatto che i titoli siano detenuti in fondi comuni, ETF o mandati istituzionali.

Il premio di liquidità disponibile sui mercati del credito è uno dei motivi per cui gli investitori possono aspettarsi guadagni superiori a quelli ottenibili investendo nei mercati dei titoli governativi, più profondi e liquidi. Quando la liquidità era ottima, nel 2006-2007, e gli spread del credito molto ridotti, chi investiva in obbligazioni societarie non era remunerato per il rischio di liquidità e, di conseguenza, ha subito forti penalizzazioni quando gli spread in quel segmento si sono ampliati fino ai massimi di tutti i tempi nel 2008. Il deterioramento della liquidità ha contribuito alla pesante correzione che ha coinvolto i mercati dei titoli societario in quel periodo.

Le dinamiche sottostanti sono un argomento interessante. Negli Stati Uniti, il turnover sul mercato secondario delle emissioni societarie ora in realtà è superiore ai livelli pre-crisi. Come illustrato nel grafico sotto, i volumi medi di transazioni giornaliere sono aumentati da meno di 15 miliardi di dollari nel 2007 ai 22 miliardi di ottobre 2014.

Tuttavia, i mercati mondiali dei corporate sono cresciuti in misura consistente negli ultimi sette anni. Quindi, se guardiamo alle compravendite di titoli societari in percentuale del mercato totale, anziché in termini assoluti, il declino costante della quota di emissioni in essere scambiate sul mercato secondario diventa evidente. Il turnover giornaliero sul mercato secondario nell’area investment grade USA è stato in media dello 0,28% dal 2011 a oggi, contro lo 0,43% del periodo 2006-2007. È interessante notare che durante la crisi finanziaria, un periodo percepito da molti come un ambiente di liquidità decisamente scarsa, il turnover di mercato giornaliero ha raggiunto lo 0,5% del segmento investment grade e l’1,0% di quello high yield negli Stati Uniti, per effetto del tentativo degli investitori di uscire dalle posizioni detenute. Al di là delle condizioni meno liquide in rapporto ai livelli pre-crisi, non c’è nessuna prova di un crollo recente, più precipitoso, della liquidità del mercato secondario.

Ciò non toglie che nel 2014, in alcune occasioni, i movimenti di mercato anomali sono stati attribuiti alla carenza di liquidità. Il 15 ottobre, il rendimento sui titoli governativi USA di riferimento a 10 anni è crollato di 33 punti base all’1,86% prima che intervenissero i trader, per poi risalire al 2,13%. Questo “flash crash” potrebbe essere derivato dalla capitolazione di alcuni importanti operatori sulle posizioni di duration breve, oppure dalle negoziazioni computerizzate, altro fattore indicato tra i possibili colpevoli dei movimenti di prezzo dei titoli di Stato, quando i rendimenti sono scesi al di sotto del supporto chiave del 2,0%. A fine giornata, risultavano compravendite di Treasury per quasi mille miliardi di dollari, a dimostrazione che la liquidità era di fatto disponibile. Come in tutti i mercati in affanno, la domanda è se gli investitori abbiano comprato e venduto a prezzi ragionevoli.

Incassare il premio di liquidità è uno dei modi in cui i gestori di fondi obbligazionari generano guadagni elevati per gli investitori. Ovviamente i rischi connessi alla detenzione di tanti titoli illiquidi aumentano in un ambiente di scarsa liquidità, in cui potrebbe essere difficile soddisfare le richieste di rimborso dei clienti. Per mitigare questo rischio, i gestori possono adottare diverse strategie, come ad esempio investire in titoli di Stato, detenere obbligazioni societarie di alta qualità con duration breve, predisporre un cuscinetto di liquidità o di strumenti analoghi e rafforzare la diversificazione.

Oggi le condizioni di liquidità sembrano sempre più legate all’andamento degli spread (soddisfacenti nei periodi di contrazione e peggiori nelle fasi di ampliamento dei differenziali). A nostro avviso, una carenza di liquidità non è di per sé un aspetto necessariamente preoccupante. Nonostante ciò, monitoriamo attivamente il rischio di liquidità in tutti i nostri fondi obbligazionari, e questo è uno dei principali motivi per cui integriamo la gestione della liquidità nel processo di investimento.

Titoli high yield a tasso variabile

Ora che molte delle condizioni per la normalizzazione dell’economia sono state soddisfatte, si sta avvicinando anche la normalizzazione dei tassi di interesse.

Mark Carney, Governatore della Banca d’Inghilterra, Liverpool, Regno Unito, 9 settembre 2014

…con l’economia sempre più vicina ai nostri obiettivi, l’enfasi del FOMC (Federal Open Market Committee) si sta naturalmente spostando su…la questione delle circostanze in cui dovremmo iniziare a rivedere la nostra politica straordinariamente accomodante.

Janet Yellen, Presidente della Federal Reserve, Jackson Hole, Stati Uniti, 22 agosto 2014

Stiamo entrando in una nuova era per i tassi di interesse dei Paesi sviluppati. L’esteso periodo di politiche monetarie sempre più espansive sta volgendo al termine. Alla luce dei tagli al programma di allentamento quantitativo (QE) da parte della Federal Reserve (Fed) (processo noto come tapering), gli investitori si aspettano adesso di assistere ai primi rialzi dei tassi di interesse dopo molti anni, inizialmente nel Regno Unito e a seguire negli Stati Uniti (si rimanda alla figura 1). Il dibattito verte principalmente su domande quali “quando?” e “a quale ritmo?” cresceranno i tassi, e non sul “se?”. Per gli investitori obbligazionari in particolare, questa transizione ha sollevato diversi quesiti di natura complessa. Avendo beneficiato enormemente della flessione dei rendimenti e della contrazione degli spread di credito, gli investitori verranno messi in difficoltà dal passaggio ad un ciclo più aggressivo per quello che riguarda i rendimenti di molte asset class obbligazionarie.

Di conseguenza il mercato sta prestando attenzione ed interesse a tutti quei prodotti o strumenti in grado di aiutare gli investitori ad affrontare un contesto simile. Nell’ultimo della nostra serie di Panoramic Outlook, ci concentreremo pertanto su uno di questi strumenti, il titolo high yield a tasso variabile. Negli ultimi anni, questo strumento ha conquistato il favore di molti emittenti e il mercato consta attualmente di complessivi 44 miliardi di dollari statunitensi.

Un titolo high yield a tasso variabile (FRN) si contraddistingue per due caratteristiche principali: (1) una cedola a tasso variabile che viene automaticamente adeguata in base alle variazioni dei tassi di interesse; (2) un differenziale di credito relativamente elevato che riflette l’ulteriore rischio di credito di un emittente non-investment grade.

È la combinazione di queste due caratteristiche che non solo permette agli investitori di ricevere un flusso di reddito appetibile nell’immediato, ma anche di godere di cedole più alte, e senza perdita di capitale associata, nel caso in cui i tassi di interesse dovessero aumentare . Quest’ultimo elemento, ovvero il fatto che non vi sarebbero ripercussioni sul capitale in un contesto di rialzo di tassi di interesse, rappresenta la differenza chiave rispetto al tradizionale universo delle obbligazioni a cedola fissa, che invece risentono della flessione dei prezzi in un contesto di rendimenti al rialzo.

Nel presente documento analizzeremo le caratteristiche e la composizione del mercato dei titoli high yield a tasso variabile. Prenderemo inoltre in considerazione i principali fattori di performance, così come alcuni dei rischi e dei modi in cui gestirli.

Spiegazione esemplificativa dei titoli high yield a tasso variabile

Le principali caratteristiche dei titoli high yield a tasso variabile possono essere riassunte nel modo seguente:

  • Si tratta di un titolo emesso da un’impresa con una valutazione di credito inferiore all’investment grade
  • La cedola, normalmente corrisposta su base trimestrale, è composta da:
    1. una componente variabile che viene allineata ad un tasso di riferimento del mercato monetario, tipicamente con frequenza trimestrale (in quest’articolo ci riferiremo a questa misura con l’espressione ‘Libor a 3 mesi’)
    2. uno spread di credito, che è fissato per la durata dell’obbligazione e riflette il rischio di credito aggiuntivo del prestito ad una compagnia
  • Il titolo ha una scadenza fissa (tipicamente 5-7 anni al momento dell’emissione)
  • Il titolo è uno strumento scambiato sul mercato che può essere acquistato e venduto come qualsiasi altra obbligazione societaria o high yield
  • Come esempio, immaginiamo che un’obbligazione a 5 anni sia emessa con una cedola pari a Libor a 3 mesi +450 punti base (bps). Per il primo anno, il Libor a 3 mesi è a 50 bps, quindi la cedola è di 500 bps (o 5%) in quel lasso di tempo. Nel secondo anno, il Libor a 3 mesi sale a 75 bps, e di conseguenza la cedola sale a 75+450=525 bps, o 5,25% in quel periodo.

Caratteristiche di mercato

Tabella 1: Mercato titoli high yield a tasso variabile a confronto con altri mercati obbligazionari a cedola fissa
IndiceGlobal High Yield Floating RateGlobal Government BondGlobal CorporateGlobal High Yield
Scadenza media (anni)4,58,98,76,1
Duration effettiva (anni)0,037,26,24,2
Duration degli spread (anni)2,16,96,14,1
Valore nominale (milardi di dollari statunitensi)4423.0817.9642.057
“Rendimento a scadenza (%)4,51,32,76,1
Spread (rispetto a titoli di Stato, bps)40014110435
Rating compositoB1AA1A3B1
Fonte: M&G, Merrill Lynch, 5 agosto 2014

La tabella 1 delinea alcune delle caratteristiche del mercato dei titoli high yield a tasso variabile e lo confronta con i più tradizionali mercati del reddito fisso high yield, corporate e governativi, usando dati degli indici obbligazionari di Bank of America Merrill Lynch.

In termini di rischio di credito (misurato dal rating composito) e di spread di credito (l’extra rendimento, rispetto a quello dei titoli governativi, offerto agli investitori per compensare il rischio di default più elevato), il mercato dei titoli HY a tasso variabile è molto simile al tradizionale mercato delle obbligazioni ad alto rendimento. Ciò non deve sorprendere, in quanto vi sono molti elementi in comune tra i due mercati in termini di emittenti sottostanti.

La vera differenza emerge quando cominciamo ad analizzare le cifre di duration effettiva. La duration effettiva misura la sensibilità dei prezzi obbligazionari alle variazioni dei rendimenti. Una duration di 4,2 anni implica che a ciascun aumento dei rendimenti dell’1%, corrisponderà una perdita di capitale pari a circa il 4,2%. La duration effettiva dell’Indice High Yield Floating Rate è molto vicina allo zero (per via del regolare adeguamento delle cedole, i flussi di cassa sono fissati solo per un breve periodo). Ciò significa che (restando immutati tutti gli altri fattori), qualora ci fosse un forte sell-off nei mercati dei titoli di Stato e tutti i rendimenti obbligazionari salissero, la perdita di capitale sarebbe prossima allo zero.

Tale esposizione limitata alle oscillazioni dei rendimenti nel più ampio mercato obbligazionario indica che il mercato delle FRN tende ad essere molto meno sensibile alla volatilità provocata dai tassi di interesse. Infatti, durante la cosiddetta “crisi di nervi da tapering” del 2013, quando l’ex presidente della Fed Ben Bernanke ventilò per la prima volta l’ipotesi di un ritiro della liquidità dai mercati e mentre gli investitori si abituavano al concetto di politiche monetarie più rigide, il mercato dei titoli high yield a tasso variabile aveva dato prova di una tenuta molto migliore in termini di impatto di prezzi rispetto agli altri principali mercati obbligazionari (si rimanda alla figura 2).

Possiamo anche immaginare cosa succederebbe a livello di singole obbligazioni. Nel luglio 2014, Iceland Ltd, catena britannica di supermercati, ha emesso una FRN di 350 milioni di sterline, con cedola pari al Libor+425 bps e scadenza nel 2020, e un’obbligazione di 400 milioni di sterline, con cedola di 6,25% e scadenza nel 2021. Entrambe sono obbligazioni senior garantite di medesimo rango emesse dalla stessa compagnia. In altri termini, il rischio di credito dei due strumenti è effettivamente identico. Tuttavia, l’esposizione al rischio di tassi di interesse è ben diversa. Si prenda il seguente scenario ipotetico:

  • Entrambe le obbligazioni iniziano l’anno prezzate al 100% del valore nominale
  • Per i primi sei mesi dell’anno, il Libor a 3 mesi è allo 0,56%
  • Dopo sei mesi, la Banca d’Inghilterra aumenta inaspettatamente il tasso di 50 punti base, che spinge il Libor 3 mesi all’1,06% e fa aumentare i rendimenti dei gilt dello stesso valore lungo tutta la curva
  • Gli spread di credito restano immutati nel corso dell’anno

Pur essendo uno scenario poco probabile, citare le cifre aiuta a semplificare la spiegazione. La duration del tasso di interesse dell’obbligazione con cedola del 6,25% e scadenza 2021 è vicina ai 5,5 anni, quindi un aumento di 50bps del rendimento sottostante implica una perdita di capitale di circa il 2,7%. Questa perdita è compensata dal tasso del 6,25% corrisposto dalla cedola, quindi il rendimento totale nel corso dell’anno è del 3,6%.

Obbligazione di IcelandCedola fissa 6,25% 2021FRN 2020 (L+425)
Variazione al prezzo (%)-2,680,00
Rendimento della cedola (%)6,255,06
Rendimento totale (%)3,575,06

Al contrario, la FRN ha una duration del tasso di interesse minima, e quindi non subisce una perdita di capitale. Con l’aumento del Libor di 50bps per il secondo semestre dell’anno, la cedola passa da un annualizzato 4,81% al 5,31% (o 5,06% di media). Quindi, e trattasi di un punto cruciale, il titolo a tasso variabile non risente della più ampia volatilità provocata dai tassi di interesse e anzi, al contempo, trae vantaggio da una cedola più elevata, in quanto il rialzo del tasso bancario si traduce in un Libor più elevato, che conseguentemente spinge al rialzo i rendimenti totali.

Questo esempio mette in luce gli evidenti vantaggi degli strumenti a tasso variabile rispetto agli equivalenti a tasso fisso, in un contesto di rialzo dei tassi di interesse.

È tuttavia opportuno sottolineare che, trattandosi di strumenti non-investment grade, c’è ancora esposizione a più ampie oscillazioni degli spread di credito nel mercato dei titoli high yield a tasso variabile. Analizzando la tabella 1, possiamo notare che la duration degli spread per il mercato dei titoli high yield a tasso variabile è di 2,1 anni. Di pari passo, se gli spread si ampliassero di media di 100bps, salendo a 500bps, si assisterebbe ad una perdita di capitale associata di circa il 2,1%, e viceversa se i differenziali si contraessero.

Tuttavia, la duration degli spread è circa la metà di quella del più tradizionale universo high yield a 4,1 anni. Ciò significa che in fasi di avversione al rischio e di ampliamento degli spread di credito, l’impatto sui prezzi per il mercato dei titoli HY a tasso variabile sarebbe relativamente inferiore. Possiamo notare come questo rapporto descritto si sia in effetti materializzato durante la fase di debolezza di fine luglio e agosto 2014 (si rimanda alla figura 3).

D’altra parte, se gli spread si contraessero rispetto agli attuali livelli, il mercato dei titoli HY a tasso variabile registrerebbe probabilmente una conseguente plusvalenza più esigua rispetto all’universo più tradizionale dell’high yield, data una duration degli spread inferiore e, in media, un inferiore grado di protezione in caso di rimborso anticipato (una disposizione attuata per proteggere gli obbligazionisti, impedendo il rimborso anticipato di un’obbligazione).

Un mercato diversificato a livello globale

In termini di emittenti, il mercato globale dei titoli HY a tasso variabile è ben diversificato su numerose regioni e industrie (si rimanda alla figura 4).

Attualmente, assistiamo ad una propensione verso i mercati in sterline ed euro, determinata in parte dalla tendenza degli emittenti europei a rifinanziare il debito bancario nel mercato obbligazionario.

Emettendo FRN, le imprese possono mantenere una struttura di debito simile a quella dei prestiti bancari, ma al contempo accedere a risorse più profonde e diversificate di capitale del debito. Gli istituti di credito statunitensi, in media, hanno meno costrizioni a livello di capitale rispetto al sistema bancario europeo, e pertanto la necessità di accedere a risorse di nuovo capitale è meno evidente. Ciò nonostante, abbiamo assistito in mesi recenti a un costante flusso di emissioni sia da enti europei che statunitensi, come evidenziato dalla tabella 2.

L’altra forte tendenza è la preponderanza di emissioni industriali rispetto a quelle finanziarie. Ci aspettiamo il prosieguo di questo trend nel breve termine, che porterà col tempo ad un aumento della proporzione di emittenti industriali nel mercato.

Tabella 2: Selezione di nuove emissioni nel 2014
Data di emissioneEmittenteSettoreSpread di emissione (bps)ScadenzaImporto emesso (milioni)Paese
feb-14Innovia GoodsBeni di investimento500mar-20€342Regno Unito
mar-14Premier FoodsConsumi non-ciclici500mar-20£175Regno Unito
mar-14Kerneos Tech GroupIndustria di base475mar-21€150Francia
apr-14Eden SpringConsumi non-ciclici550apr-19€210Israele
apr-14MonierIndustria di base500ott-20€315Francia
apr-14StonegateConsumi ciclici475apr-19£140Regno Unito
apr-14QuickConsumi ciclici475apr-19€440Francia
apr-14QuickConsumi ciclici750ott-19€155Francia
apr-14Chesapeake EnergyEnergia325apr-19US$1.500Stati Uniti
mag-14GalapagosBeni di investimento475giu-21€325Germania
mag-14AES CorpBeni di servizio pubblico300giu-19US$775Stati Uniti
mag-14Avis Budget GroupServizi275dic-17US$250Stati Uniti
mag-14NovacapIndustria di base500mag-19€310Francia
giu-14XefinIndustria di base375giu-19€325Germania
giu-14MontichemIndustria di base475giu-21€175Germania
giu-14HEMAConsumi ciclici525giu-19€250Paesi Bassi
giu-14Dry Mix SolutionsIndustria di base425giu-21€550Francia
Fonte: M&G, Bloomberg, agosto 2014

Fonti di performance e rischi chiave

Per gli investitori nel mercato dei titoli high yield a tasso variabile, gli elementi chiave alla base delle performance saranno:

  1. Spread di credito – Il reddito, sotto forma di differenziale di credito rispetto al Libor, rappresenterà probabilmente una componente fondamentale dei rendimenti totali, soprattutto in un contesto di tassi di interesse contenuti. Dato che gli emittenti di questo mercato presentano un rating inferiore all’investment grade, lo spread di credito corrispondente recepito dagli investitori è più elevato rispetto agli altri mercati obbligazionari, per ricompensarli da questo rischio (attualmente corrisponde a circa 400 bps).

    Come menzionato in precedenza, i rendimenti saranno anche determinati dalle variazioni agli spread di credito. In fasi di contrazione dei differenziali, i rendimenti saranno accentuati dalle plusvalenze; in fasi di ampliamento degli spread, gli investitori assisteranno a perdite di capitale.

  2. Tassi di interesse – Anche il percorso dei tassi di interesse di breve termine avrà un impatto. Se i tassi su breve periodo scendono, cadranno anche i rendimenti totali, in quanto la cedola viene automaticamente ridotta, e viceversa in caso di rialzo dei tassi a breve termine.
  3. Tassi di default – Se i tassi di default nel segmento ad alto rendimento aumentassero, i rendimenti degli investitori ne sarebbero penalizzati in quanto le singole obbligazioni possono risentire delle riduzioni di capitale durante il processo di fallimento.

    Le performance più deludenti si registrerebbero quindi in un periodo di ribasso di tassi di interesse, ampliamento degli spread di credito e aumento dei default. Le migliori performance invece si otterrebbero in una fase di tassi in rialzo, spread di credito stabili o in contrazione e tassi di inadempienza contenuti o in discesa.

Titoli high yield a tasso variabile a confronto con prestiti a leva

Dati gli elementi elencati in questo articolo, si noterà che i titoli high yield a tasso variabile condividono molte delle stesse caratteristiche di investimento dei prestiti a leva (cedole a tasso variabile, posizione senior nella struttura di capitale, emittenti non-investment grade).

Tuttavia, esistono delle piccole, ma importanti, differenze tra le due asset class. La più cruciale per gli investitori europei non-istituzionali risiede nel fatto che i titoli high yield a tasso variabile possono essere inclusi in fondi di investimento di tipo aperto autorizzati ( e sono noti quindi come “titoli idonei all’inserimento in OICVM”), mentre i prestiti a leva sono attualmente considerati idonei solo per gli investitori istituzionali. Ad oggi, ciò significa che gli investitori non-istituzionali possono accedere a questo mercato unicamente tramite veicoli chiusi quali società di investimento collettivo.

Tuttavia, con l’emergere del mercato dei titoli high yield a tasso variabile, gli investitori non-istituzionali in Europa potranno avere accesso a questo mercato tramite un tradizionale fondo di tipo aperto.

 FRN high yieldPrestiti a leva
CedolaLibor + margine fissoLibor + margine fisso
Rating di creditoNon-investment gradeNon-investment grade
TitoloTipicamente primo grado / senior garantitiTipicamente primo grado / senior garantiti
LiquiditàScambio giornaliero liquidazione a 3 giorniRisarcimento meno liquido, incerto
Pubblico / PrivatoUnicamente informazione pubblicaInformazione pubblica e privata
Idoneo a OICVMSi – può essere incluso in fondi di investimento aperti venduti a investitori non-istituzionaliNo- limitato unicamente a investitori istituzionali. Gli investitori non-istituzionali possono ottenere esposizione solo tramite fondi chiusi.

Mitigare il rischio di default

Esempi di titoli high yield a tasso variabile

Società: Vue Cinemas
Bond emesso: 290 milioni di euro
Cedola: Euribor a 3 mesi+525bps
Scadenza: Luglio 2020
Rating di credito: B2/B
Regioni: Regno Unito e Nord Europa

Vue è un affermato operatore cinematografico in Regno Unito e Nord Europa. Crediamo che Vue, un business incentrato sui consumatori ed in grado di generare forti flussi di cassa, sia ben posizionato per trarre vantaggio dal rimbalzo della fiducia dei consumatori e della spesa al dettaglio.

Società: Chesapeake Energy
Bond emesso: 1.500 milioni di dollari statunitensi
Cedola: Libor a 3 mesi in dollari statunitensi+325bps
Scadenza: Aprile 2019
Rating di credito: Ba1/BB+
Regione: Stati Uniti

La più grande impresa statunitense per produzione ed esplorazione di gas di scisto, con una capitalizzazione di mercato di circa 18 miliardi di dollari statunitensi, Chesapeake gode di una solida base di asset distribuiti sui principali giacimenti di gas continentali e di un bilancio in fase di recupero.

Società: Wind Telecomunicazioni
Bond emesso: 575 milioni di euro
Cedola: Euribor a 3 mesi+400bps
Scadenza: Luglio 2020
Rating di credito: Ba3/BB
Regione: Italia

Il gestore italiano di telefonia mobile è uno dei principali emittenti di titoli high yield in Europa. Le sue obbligazioni senior garantite sono ben sostenute da forti flussi di cassa sottostanti.

Consideriamo il rischio di default come un rischio chiave da gestire durante tutto il ciclo, trattandosi del fattore che potrebbe condurre a una perdita di capitale permanente. Come possiamo gestire questo rischio? A nostro avviso esistono tre elementi chiave per la mitigazione del rischio:

  1. Diversificazione – Far sì che ogni investimento in questo mercato sia diversificato a livello regionale e settoriale aiuta a proteggere gli investitori da forti shock idiosincratici che potrebbero accelerare i default in qualsiasi industria o regione.
  2. Analisi del credito – In quanto imprese non-investment grade, i rischi legali, finanziari e di attività associati ad ogni obbligazione emessa possono essere molto complessi. Di conseguenza, è fondamentale avere la capacità e l’expertise necessarie a valutare questi rischi analizzando i singoli casi.
  3. Investimento in strumenti senior garantiti – Gli strumenti senior garantiti o di primo grado hanno la precedenza sugli asset dell’emittente in caso di fallimento. Ciò significa che i tassi di recupero sono mediamente molto più elevati rispetto a quelli dei titoli non garantiti (si rimanda alla tabella 3). Le FRN high yield sono spesso strumenti senior garantiti o collocati accanto ai prestiti nella struttura del capitale. Utilizzando i dati sottostanti dagli Stati Uniti come misura indicativa, ci aspetteremmo dei tassi di recupero attorno al 60-80% sul lungo termine per questo mercato.
Tabella 3: Tassi medi di recupero del debito societario non finanziario nordamericano misurati da recuperi finali, 1987-2013
Ordine dei privilegiAnno di riemersioneAnno di default
 201320121987-2013201320121987-2013
Prestiti73,3%91,7%80,3%81,3%77,2%80,3%
Obbligazioni senior garantite67,5%63,6%63,5%n/a71,2%63,5%
Obbligazioni senior non garantite*4,5%36,0%48,1%n/a39,3%48,1%
Obbligazioni subordinate**0,0%9,2%28,2%n/a13,5%28,2%
*il tasso di recupero delle obbligazioni senior non garantite del 2013 si basa su cinque osservazioni
**Include obbligazioni senior subordinate, subordinate e junior subordinate. Il tasso di recupero subordinato del 2013 si basa su osservazioni
Fonte: Moody’s, agosto 2014

Un nuovo strumento

Come ci auspichiamo di aver illustrato tramite il presente articolo, le obbligazioni high yield a tasso variabile offrono una combinazione unica di caratteristiche per gli investitori obbligazionari, ovvero un’esposizione agli spread di credito assieme ad un rischio tassi di interesse materialmente inferiore. Di conseguenza, crediamo che lo sviluppo di tale mercato apporterà agli obbligazionisti un nuovo strumento che non solo sarà in grado di mitigare le potenziali difficoltà di tassi di interesse più elevati, ma permetterà loro inoltre di trarre vantaggio dalla prossima fase del ciclo di politica monetaria.

Gli “schiaccia-rendimenti”: i tassi d’interesse aumenteranno inevitabilmente alla fine del QE?

Se parlate con esperti di strategie di investimento ed economisti in giro per il mondo oggi, quasi tutti vi diranno che non è il momento di acquistare asset a reddito fisso, meno che mai titoli di Stato. In genere, sottolineeranno il basso livello dei tassi d’interesse, suggerendo che i rendimenti obbligazionari possono muoversi in una sola direzione, ossia verso l’alto. Dopo la “crisi di nervi da tapering” del 2013, molti prevedono che il fattore catalizzante di un sell-off di asset obbligazionari potrebbe essere la fine dell’allentamento quantitativo (QE) messo in campo dalla Federal Reserve (Fed). Al ritmo attuale di riduzione delle iniezioni di liquidità, l’esperimento di QE della banca centrale statunitense dovrebbe arrivare al capolinea a ottobre di quest’anno.

In questa ultima edizione del nostro Panoramic Outlook, vorrei proporre un punto di vista alternativo a quello del consenso, che vede come inevitabile un rialzo dei tassi d’interesse. A tal fine, ho esaminato una serie di dinamiche sui mercati del reddito fisso che hanno sorpreso gli investitori durante questo periodo di politica monetaria straordinaria. Esistono diverse ragioni possibili per cui il mercato potrebbe non vedere un incremento significativo dei rendimenti obbligazionari quando la Fed metterà fine al QE. Prima di tutto, data la fragilità della ripresa economica mondiale e l’alto livello di indebitamento nell’economia statunitense, è improbabile che i tassi d’interesse torneranno a livelli pre-crisi, il che limita il potenziale di ribasso per gli asset a reddito fisso. In secondo luogo, ci sono varie forze deflazionistiche strutturali di notevole entità, che stanno contribuendo a tenere bassa l’inflazione. Infine, esiste e probabilmente esisterà ancora una forte domanda di titoli a reddito fisso da parte dei grandi fondi pensione e delle banche centrali, associata a un altro importante fattore tecnico: l’eccesso di risparmi globale.

Lo stato attuale

Nel corso del 2014, la presidente della Fed, Janet Yellen, e il Federal Open Market Committee (FOMC) hanno continuato a rallentare il ritmo del programma di acquisti di asset su larga scala. Il quarto round di QE ha indubbiamente avuto un impatto sui rendimenti obbligazionari, tanto che secondo le stime della Banca dei regolamenti internazionali1 il tasso forward a cinque anni sui titoli decennali è inferiore di circa 90-115 punti base di quanto sarebbe normalmente. Oggi la Fed detiene titoli di debito governativo statunitense per circa 2400 miliardi di dollari, come mostrato nel grafico 1.

Il dubbio con cui i mercati si trovano a fare i conti in questo momento è: cosa succederà quando l’enorme fonte di domanda di Treasury, ossia la Federal Reserve statunitense, si ritira dal mercato?

Osservare il comportamento passato dei rendimenti dei Treasury decennali non fornisce molte indicazioni su come potrebbe essere il corso futuro. Ad esempio, come mostrato nel grafico 2, il tasso sui titoli del Tesoro USA a 10 anni è sceso di circa 175 punti base durante il QE1, prima di risalire ai livelli pre-QE. A un certo punto durante il QE2, i rendimenti sono aumentati di circa 125 bps, per poi ricadere al 3%. Nel corso del QE3, il rendimento a 10 anni è diminuito di circa 20 bps. Nel 2013 i mercati hanno avuto una “crisi di nervi da tapering” dopo la testimonianza di fronte al Congresso dell’allora presidente della Fed Bernanke, e i rendimenti sono aumentati di oltre 100 punti base. Quest’anno, mentre la Fed riduceva gradualmente gli acquisti di asset, i rendimenti hanno registrato un calo di circa 50 punti base. Sarebbe semplicistico suggerire che il comportamento dei prezzi obbligazionari dipenda soltanto dal fatto che la Fed mette in campo misure di QE oppure no. Devono esserci altre forze in gioco sul mercato obbligazionario.

1Bank of International Settlements Working Paper: The interest rate effects of government debt maturity

Rendimenti dei titoli governativi: più bassi più a lungo?

Può essere utile cercare di identificare le altre forze in gioco sul mercato dei titoli governativi statunitensi. È possibile che i tassi offerti dal debito governativo USA restino più bassi più a lungo, continuando a sorprendere il consenso?

In quanto primo mercato al mondo di titoli di Stato per dimensioni e profondità, quello dei Treasury USA è rappresentativo del tasso di rendimento esente da rischi, ossia l’interesse atteso da un investitore su asset del tutto privi di rischio nell’arco di un determinato periodo di tempo. Il tasso esente da rischio agisce come un’ancora per altri asset a reddito fisso, come le obbligazioni societarie di categoria investment grade e high yield. A questo punto del ciclo economico e del credito, sembrano presenti quelle che definirei tre forze cruciali di compressione dei rendimenti (o “schiaccia-rendimenti”), di cui gli investitori dovrebbero essere consapevoli.

Schiaccia-rendimenti n. 1: il tasso sui Fed fund resterà a un livello basso ancora a lungo.

I cicli dei tassi d’interesse nominali negli Stati Uniti hanno mostrato livelli di picco e valle progressivamente più bassi, negli ultimi trent’anni (si veda grafico 3). Ci sono diversi motivi per questo fenomeno. Primo, l’inflazione in calo ha dato un contributo notevole alla flessione dei tassi d’interesse. Secondo, la mossa per rendere le banche centrali indipendenti dai rispettivi governi è stata un passo significativo verso la conquista di credibilità. Terzo, l’adozione di un approccio alla politica monetaria imperniato su obiettivi di inflazione e stabilità dei prezzi ha svolto un ruolo fondamentale per ancorare le aspettative di inflazione sia dei consumatori che del mercato.

L’indicazione più importante che possiamo ottenere sul tasso dei fondi federali è capire se stia stimolando o frenando la crescita economica. In generale, la politica monetaria si può considerare espansiva se il tasso di riferimento è inferiore al tasso d’interesse naturale (ossia quello coerente con una produzione allineata al potenziale), mentre lo scarto fra i tassi misura l’entità dello stimolo economico.

Il problema degli economisti è che il tasso d’interesse naturale è inosservabile, ma si può tracciare con un modello che identifica il tasso d’interesse teorico quando la produzione è pari al potenziale. Usando un modello2 sviluppato dagli economisti della Federal Reserve statunitense, una stima attuale del tasso d’interesse naturale è di circa il -0,4% (si veda grafico 4). La stima ha evidenziato una tendenza prevalentemente al ribasso fin dagli anni Sessanta. Tranne un paio di brevi periodi nel corso degli ultimi 15 anni, il tasso d’interesse reale è stato inferiore a quello naturale, il che riflette un ambiente di politica monetaria espansiva. Questo ha incoraggiato l’accumulo di debito e l’assunzione di rischi.

I cicli dei tassi nominali statunitensi hanno subito una moderazione nel tempo, man mano che è aumentata la leva nell’economia USA. Probabilmente questo continuerà nel ciclo attuale, il che fa presagire un picco dei tassi d’interesse molto inferiore rispetto a quelli visti nei cicli di contrazione precedenti. Dati gli alti livelli di leva, basteranno rialzi dei tassi meno numerosi e più graduali per frenare l’attività economica. Di conseguenza, la Fed non dovrà premere il pedale del freno con lo stesso vigore del passato per rallentare l’economia e proteggerla dall’inflazione. Il mondo è assuefatto ai tassi d’interesse bassi, quindi i cicli dei tassi nei prossimi dieci anni potrebbero tradursi solo in pochi ritocchi al rialzo.

Immaginate un maratoneta di talento al massimo della forma. Avrà inevitabilmente una bassa percentuale di grasso corporeo rispetto alla media. Andando avanti con l’età, i livelli inferiori di attività fisica e la minore attenzione alla dieta lo porteranno a mettere su peso (e anche molto). Fuori allenamento e con un corpo più pesante, il maratoneta sarà inevitabilmente più lento e non potrà più competere allo stesso livello di un tempo.

Questa analogia è utile per descrivere l’abbuffata di debito statunitense a tutti i livelli dell’economia: famiglie, imprese, banche e governo. Il debito totale rapportato al PIL si attesta attorno al 350% (come mostrato inel grafico 5). Per più di una generazione, governi, consumatori e imprese sono riusciti ad assumere prestiti impunemente, sapendo che l’inflazione persistente avrebbe sgonfiato i loro debiti. Oggi, non solo questi agenti economici stanno tentando a fatica di tirarsi fuori dalla palude di indebitamento in cui si trovano, ma la deflazione rischia di far aumentare il valore reale degli importi che devono restituire. Gli economisti chiamano questo paradosso la “deflazione del debito”. L’economia statunitense non può scrollarsi di dosso la leva eccessiva accumulata nell’arco di trent’anni, a meno che i tassi d’interesse non restino bassi.

Nonostante la moderazione degli ultimi anni, la riduzione del debito effettuata nell’economia statunitense non basta. Livelli di indebitamento così elevati sono sostenibili solo perché i tassi d’interesse sono a livelli che non si vedevano più dagli anni Cinquanta. Per tornare all’analogia del corridore, non ci aspetteremmo che il nostro maratoneta pensionato e sovrappeso gareggi al livello di un tempo. Le imprese, le famiglie, le banche e persino il governo degli Stati Uniti non potrebbero sopravvivere in un mondo di tassi d’interesse molto più alti, senza che l’economia precipiti di nuovo in recessione. I tassi d’interesse e i rendimenti potrebbero aumentare dai livelli attuali, ma difficilmente torneranno ai livelli pre-crisi.

2Thomas Laubach and John C. Williams, Measuring the Natural Rate of Interest

Yellen ha il suo manuale di politica monetaria

Gli economisti e i mercati si stanno ancora abituando ad avere Janet Yellen a capo della Fed. Dopo un periodo di lavoro nel sistema Fed e alla Casa Bianca per un totale di 16 anni, l’esame della sua lunga carriera accademica e degli studi pubblicati può dare indicazioni interessanti sul suo pensiero riguardo alla gestione della politica monetaria.

Yellen ha pubblicato vari studi con il marito, George Akerlof, economista americano vincitore del Nobel per l’economia nel 2001. Il suo lavoro più citato, “The Fair Wage – Effort Hypothesis and Unemployment”3, costruisce un modello in cui l’impegno che un lavoratore mette nel lavoro dipende dalla differenza fra la retribuzione effettiva e quella che lo stesso lavoratore percepisce come “equa”. L’ipotesi è che più è ampia la differenza, minore sarà l’impegno del lavoratore.

Un altro lavoro pubblicato con Akerlof, che è forse il più rilevante per la politica monetaria, risale al 2004. In “Stabilization Policy: A Reconsideration”4 gli autori hanno esaminato la letteratura esistente, contestando la tesi di Milton Friedman secondo cui la politica anticiclica non può influire sul livello medio di disoccupazione e prodotto. Anche in questo caso, Yellen si è concentrata sul mercato del lavoro, arrivando alla conclusione che essere disoccupati in un periodo di recessione è molto peggio che esserlo in periodi migliori. Gli autori concludono che “esistono solide argomentazioni a favore della politica di stabilizzazione e ottime ragioni perché le banche centrali diano priorità a tale politica nell’era attuale di bassa inflazione”. Ciò costituisce una profonda differenza rispetto alla Federal Reserve di Alan Greenspan, che era restio ad aumentare i tassi d’interesse di fronte a un boom, ma pronto a ridurli quando l’economia entrava in recessione.

Il lavoro successivo, “Waiting for Work”5, prodotto nel 1990 sempre con Akerlof e con l’economista Andrew Rose, si concentra su un fenomeno noto come “lock-in” (o blocco). Gli autori rilevano che “i lavoratori licenziati in una fase di crisi aspettano razionalmente di accettare lavori fino a quando le condizioni economiche non migliorano. Restano volontariamente disoccupati nelle recessioni se ottengono un vantaggio aspettando le retribuzioni più alte in via permanente disponibili con i nuovi lavori che emergono durante le fasi di espansione”. Yellen, Akerlof e Rose hanno dimostrato che i lavoratori assunti nei periodi di boom “bloccano” le retribuzioni più alte, mentre quelli assunti nelle fasi di crisi subiscono retribuzioni inferiori. Questo spiega in parte il motivo per cui Yellen si aspetta che il tasso di partecipazione alla ripartenza dell’economia americana aumenti in futuro, man mano che i lavoratori si convincono che la ripresa durerà.

Con Janet Yellen, la Federal Reserve ha scelto un’economista accademica molto forte, che si è dedicata alla basilare risorsa dell’economia del lavoro per gran parte della sua carriera di studiosa. Non molto diversamente da Ben Bernanke, che era un esperto della Depressione statunitense prima di approdare alla Fed e vedeva l’economia attraverso i giorni bui della crisi del credito, sembra che Janet Yellen possa essere al posto giusto al momento giusto per guidare il FOMC. Per quanto riguarda il duplice mandato della Fed di stabilità dei prezzi e piena occupazione, purché l’inflazione si comporti come si deve, Yellen preferirà probabilmente mantenere una politica monetaria accomodante. Ciò è stato evidenziato nell’ultima testimonianza di fronte al Congresso, in cui ha dichiarato: “La mia aspettativa è che, man mano che il mercato del lavoro comincia a contrarsi, vedremo una ripresa della crescita dei salari, in alcuni casi fino al punto in cui i salari nominali aumentano più rapidamente dell’inflazione, quindi le famiglie vedono un incremento reale delle somme che portano a casa. Se questo non dovesse accadere, francamente mi preoccuperei del rischio al ribasso per la spesa per consumi”.

Probabilmente oggi ci sono tre indicatori economici chiave da osservare: l’inflazione, la disoccupazione e la crescita dei salari. Senza crescita dei salari, difficilmente la presidente Yellen deciderà di aumentare i tassi nell’immediato futuro. Il FOMC ha un nuovo manuale di politica monetaria.

3http://www.jstor.org/discover/10.2307/2937787?uid=3738032&uid=2&uid=4&sid=21104376303467

4http://www4.fe.uc.pt/jasa/m_i_2010_2011/stabilizationpolicyreconsideration.pdf

5http://www.nber.org/papers/w3385.pdf

Schiaccia-rendimenti n. 2: i dati economici deboli e le forze deflazionistiche strutturali

Probabilmente la forza più potente all’origine del rialzo dei prezzi obbligazionari è stata la riduzione del premio di inflazione che gli investitori associano al possesso di titoli governativi. L’andamento delle obbligazioni governative a lungo termine quest’anno suggerisce l’aspettativa che l’inflazione resterà ai livelli attuali (o inferiori) ancora per molto tempo. Il che è prevedibile, considerando che i dati economici sono risultati ampiamente inferiori alle previsioni degli economisti fin da febbraio, come mostra il grafico 6. La Fed ha ribadito spesso che il ritmo della contrazione della politica monetaria dipenderà dai dati. Molti hanno dato la colpa dei dati deludenti al tempo inclemente, ma l’atteggiamento accomodante della Fed per ora appare giustificato.

Nel delineare le prospettive di inflazione, è importante riconoscere la possibile presenza di forze deflazionistiche strutturali nell’economia globale, tra cui il processo di riduzione dell’indebitamento, la globalizzazione e i progressi tecnologici che determinano consistenti guadagni di produttività. Alla luce di queste forze strutturali, è estremamente utile esaminare l’esperienza del reddito fisso giapponese, che può dare indicazioni preziose sul futuro comportamento dei rendimenti obbligazionari nei Paesi del G7. Si veda La “giapponificazione” dei mercati del debito governativo per maggiori approfondimenti.

La “giapponificazione” dei mercati del debito governativo

Verso la fine degli anni Ottanta, il Giappone era un fulgido esempio per il resto del mondo, agli occhi di molti economisti. La maggioranza vedeva un chiaro vantaggio nella competitività giapponese in rapporto agli Stati Uniti, in una vasta gamma di beni commerciabili di produzione di massa, sia nel settore manifatturiero che in quello dell’alta tecnologia. Il Giappone si era ripreso dalla devastazione della Seconda Guerra Mondiale e la sua economia generava tassi di crescita solidi anno dopo anno.

All’epoca si riteneva che l’etica del lavoro nipponica fosse di gran lunga superiore a quella dell’Occidente. Questo avrebbe portato probabilmente notevoli vantaggi in termini di produttività della forza lavoro. Inoltre, l’alto tasso di risparmio del Giappone e la crescita lenta della popolazione avrebbero dato un vantaggio all’economia, in un mondo sempre più globalizzato. Ovviamente, la vicinanza del Giappone alla Cina e all’Estremo Oriente gli avrebbe dato accesso ad ampie risorse di lavoratori cui affidare i lavori meno qualificati e meno remunerati. Ciò avrebbe consentito all’economia giapponese di specializzarsi e beneficiare dell’alto numero di lavoratori nazionali con un livello di istruzione elevato.

Sfortunatamente per l’economia giapponese, la realtà si è rivelata diversa dalle previsioni fiduciose. Oggi l’economia ha dimensioni inferiori di circa il 40% a quelle previste dagli osservatori alla fine degli anni Ottanta, essendo cresciuta a un ritmo molto lento negli ultimi due decenni. I cittadini e le imprese giapponesi hanno passato gran parte degli ultimi trent’anni a scrollarsi di dosso il debito accumulato negli anni Ottanta. Le banche appesantite dal fardello delle sofferenze si rifiutavano di concedere prestiti, preferendo acquistare titoli di Stato giapponesi.

Ravvisando il malessere economico, il governo ha offerto nuovi piani di stimolo aumentando la spesa pubblica, anche se con un impatto molto modesto sull’economia reale. Ciò ha fatto aumentare il rapporto debito/PIL da circa il 70% a fine anni Ottanta a oltre il 200% di oggi. La banca centrale alla fine ha fatto la sua parte, riducendo i tassi d’interesse a zero e adottando il QE nel 2001.

Ma quali sono le lezioni che gli investitori obbligazionari possono trarre dall’esperienza giapponese?

Per gli investitori, un’operazione che ha sempre comportato perdite, in qualsiasi arco di tempo ragionevole, è stata l’assunzione di posizioni corte in titoli di stato giapponesi (JGB). Questo tipo di investimento, unico per costanza, si è guadagnato anche un nome: il “creatore di vedove”. Negli ultimi 24 anni, i rendimenti dei JGB sono crollati senza tregua, da un picco di circa l’8% toccato nel 1990 all’attuale 0,62%. Nonostante il grande esperimento monetario dell’ “Abenomics”, il creatore di vedove è vivo e vegeto.

La storia forse non si ripeterà perfettamente, ma quasi. Come illustrato nei grafici, i rendimenti sui titoli di Stato americani, tedeschi e britannici stanno seguendo un percorso pericolosamente simile a quello dei titoli nipponici all’inizio degli anni Novanta. La domanda da farsi ora è questa: l’esposizione corta ai titoli governativi dei mercati sviluppati è il nuovo “creatore di vedove”?

Schiaccia-rendimenti n. 3: l’eccesso di risparmi globale

Un altro motivo per cui gli investitori sono sorpresi dal calo dei rendimenti visto quest’anno, nonostante la riduzione degli acquisti da parte della Fed, è costituito dal solido supporto “tecnico” di cui gode l’asset class. Spesso è un fattore difficilmente identificabile in anticipo e molto più difficile da misurare di altre variabili economiche, come la disoccupazione o l’inflazione. Il supporto tecnico per i Treasury è in parte illustrato nei grafici 7 e 8.

I rendimenti bassi sul debito governativo durante l’ultimo ciclo di rialzo dei tassi hanno destato perplessità anche nell’allora presidente della Fed, Alan Greenspan. È stato il suo successore, Ben Bernanke, a offrire una spiegazione plausibile nel 2005. Secondo la sua opinione, i rendimenti in calo sui titoli governativi e la curva dei rendimenti invertita erano il risultato di un “eccesso di risparmi globale”.

Bernanke ha avanzato la tesi secondo cui lo sviluppo decennale di risparmi mondiali era frutto di una combinazione di potenti fattori tecnici. Innanzitutto, un fattore cruciale è la forte motivazione al risparmio di nazioni sviluppate con una popolazione sempre più vecchia, come la Germania e il Giappone. In secondo luogo, secondo Bernanke, il mondo sviluppato si stava trasformando, da utilizzatore netto a fornitore netto di fondi ai mercati dei capitali internazionali. I proventi dei forzieri di riserve estere accumulate dalle economie emergenti in risposta alle crisi precedenti venivano utilizzati per acquistare Treasury statunitensi e altri asset.

Il grafico 7 illustra i principali detentori esteri di titoli del Tesoro USA: Cina, Giappone e Belgio. Proprio così: il Belgio, un piccolo Paese con una popolazione di 11 milioni di persone, è il terzo maggior detentore di titoli governativi statunitensi. Tuttavia, è altamente improbabile che il Belgio stia acquistando tutte queste obbligazioni governative e alcuni hanno teorizzato che l’incremento di tali posizioni negli ultimi otto mesi riflette le tendenze di acquisti segreti di altri Paesi che usano Bruxelles come centro finanziario. Potrebbe essere la Cina o qualche banca centrale, oppure il fatto che Euroclear (che fornisce i servizi di custodia) si trova a Bruxelles. O magari non è nessuno di questi fattori. Quello che sappiamo è che la domanda di Treasury statunitensi ha registrato un’accelerazione nel 2014. L’eccesso di risparmi globali non è sparito.

Un altro importante vento a favore per i mercati del reddito fisso soffia a causa del fatto che sia gli asset azionari che quelli obbligazionari hanno beneficiato di un andamento brillante negli ultimi due anni circa. I fondi pensione pubblici e privati sono meglio finanziati e puntano sempre di più a monetizzare i guadagni, prima che la volatilità riprenda ad aumentare.

I gestori dei piani a benefici definiti preferiscono condurre una vita all’insegna della prudenza. È di importanza vitale per loro generare guadagni sufficienti per onorare le promesse che hanno fatto ai dipendenti. Per questo, l’allocazione in asset sicuri, come il reddito fisso, da parte di tali fondi è stata storicamente piuttosto elevata.

Molti piani risultavano sovrafinanziati all’inizio del millennio, quindi i gestori con la prospettiva dei benefici definiti potevano dormire sonni tranquilli. La situazione è cambiata dopo la crisi finanziaria del 2008, quando i rendimenti dell’allocazione azionaria di molti fondi sono sprofondati in territorio negativo. Il ricordo di quell’episodio deve essere ancora vivo, e molti gestori si sono ripromessi di ridurre il rischio di portafoglio se mai fossero tornati al livello di pieno finanziamento.

Fortunatamente per i dipendenti delle maggiori società statunitensi, molti fondi pensione stanno risalendo la china verso questo traguardo (si veda grafico 8). Il Milliman 100 Pension Funding Index, che rappresenta lo stato di finanziamento dei 100 maggiori fondi pensione aziendali a benefici definiti negli Stati Uniti (circa 1500 miliardi di dollari di patrimonio), ha rilevato un aumento del funding ratio all’87,3% alla fine del 2013, dal 77,3% di un anno prima, il che equivale a un deficit di 193 miliardi di dollari. Tale aumento registrato nel corso del 2013 è il più ampio mai sperimentato nei 14 anni di storia dell’indagine Milliman.

Ci aspetteremmo che man mano che i piani pensionistici si avvicinano allo status di pieno finanziamento, i gestori continueranno la “rotazione inversa” dall’azionario verso il reddito fisso, concentrandosi su strategie di investimento basate sulle passività, per garantire la possibilità di fare fronte ai pagamenti futuri.

I rendimenti dei titoli di Stato si muoveranno verso l’alto dai livelli attuali oppure gli “schiaccia-rendimenti” limiteranno i danni?

Rispondere alla domanda su come si muoveranno i rendimenti dalla situazione attuale è più difficile di quanto possa sembrare a prima vista. E la difficoltà deriva dalla natura incerta e sperimentale delle politiche monetarie non convenzionali, come i programmi di QE. A causa di questa incertezza, può essere utile interrogare il consenso di mercato, che vede come certo un rialzo dei tassi.

È molto possibile che chi si aspetta un ritorno dei rendimenti ai livelli pre-crisi dopo la fine del QE resti deluso. Bisogna considerare le forze di compressione dei rendimenti in gioco sul mercato dei titoli governativi statunitensi. Inoltre, gli “schiaccia-rendimenti” potrebbero essere facilmente applicati ai mercati dei titoli di Stato britannici ed europei, fornendo indicazioni utili sul futuro corso dei rendimenti. Ciò inciderà sull’attrattiva di altri asset a reddito fisso, come le obbligazioni societarie di categoria investment grade e high yield. Molto probabilmente, i tassi a pronti ultra bassi e l’ambiente di tassi d’interesse stabile per i titoli di Stato fornirebbe una base solida per i mercati delle obbligazioni societarie, in quanto gli investitori continueranno a cercare rendimenti reali positivi.

L’opera di ribilanciamento dei mercati emergenti

Nel corso dell’ultimo anno, la percezione degli investitori riguardo all’obbligazionario dei mercati emergenti è cambiata: se prima vedevano il bicchiere mezzo pieno, adesso lo vedono mezzo vuoto. Questo cambio di atteggiamento è derivato principalmente dalle aspettative di riduzione degli acquisti di asset negli Stati Uniti e di un rialzo dei rendimenti sui Treasury, fattori che hanno fatto temere un arresto improvviso degli afflussi di capitali e un aumento della volatilità valutaria. Di certo le economie dei mercati emergenti dovranno adattarsi ad afflussi di capitali meno consistenti, attraverso un processo graduale su vari fronti che richiederà diversi anni. In questa edizione del nostro Panoramic Outlook, esaminiamo i canali di trasmissione principali, le risposte sul piano delle politiche e i movimenti di prezzo degli attivi, mettendo in evidenza i rischi e le opportunità che vediamo in questa asset class. Il fulcro della nostra analisi è il debito sovrano, in valuta forte e in valuta locale.

Certi Paesi emergenti sono più avanti di altri, nel processo di ribilanciamento, mentre alcuni potrebbero non averne neanche bisogno. Un altro aspetto rilevante è che l’entità del ribilanciamento richiesto sarà da valutare caso per caso, pesando i costi economici e politici a fronte dei benefici potenziali.

In generale, le azioni necessarie comprendono la riduzione delle vulnerabilità esterne, come gli ampi deficit delle partite correnti (soprattutto quelli finanziati da flussi di capitale volatili), interventi sui pesanti deficit di bilancio e sulle fragilità del settore bancario, oppure il riequilibrio dell’economia reale fra investimenti e credito da un lato e consumi dall’altro. Vale la pena notare che non tutti i Paesi presentano vulnerabilità e quelli che ne sono esenti sono i mercati in cui investire durante le fasi di forti vendite, come quelle che abbiamo visto in giugno e agosto del 2013 e all’inizio del 2014 (si veda il grafico 1).

Debito dei mercati emergenti in valuta forte – rendimenti sui Treasury più elevati

Il debito dei mercati emergenti in valuta forte è emesso da enti sovrani (o quasi sovrani) in valute diverse da quella locale, solitamente in dollari statunitensi. Gli emittenti principali su questo mercato attualmente sono Messico, Russia, Indonesia, Venezuela e Turchia. I guadagni generati dal debito in valuta forte derivano principalmente dagli spread del credito e dai movimenti di prezzo dei Treasury statunitensi e tendono a mostrare una correlazione positiva con i Treasury.

Nei prossimi anni ci aspettiamo che i tassi d’interesse sui titoli del Tesoro statunitensi tendano gradualmente a risalire verso la neutralità intorno al 4%, esercitando una leggera pressione sui rendimenti del debito in valuta forte dei mercati emergenti. Ma con la riduzione degli acquisti di asset già incorporata nei prezzi e le pressioni inflative di scarso rilievo, la Fed potrebbe mantenere un orientamento accomodante nel breve periodo. Di conseguenza, la performance dei Treasury nel 2014 dovrebbe migliorare rispetto ai rendimenti negativi del 2013, che sono stati uno degli elementi sfavorevoli per i titoli investment grade dei mercati emergenti nel corso dell’anno passato.

Debito dei mercati emergenti in valuta locale – valute più deboli

Il debito dei mercati emergenti in valuta locale è emesso dai governi nelle rispettive valute nazionali. I maggiori emittenti su questo mercato attualmente sono Brasile, Messico, Polonia, Sudafrica, Malaysia e Russia. Nel caso del debito in valuta locale, i guadagni tendono ad essere influenzati dai tassi di rendimento globali, da fattori specifici dei singoli Paesi, come le aspettative di inflazione e di politica monetaria, dai premi al rischio e dai movimenti valutari. Il grafico 2 mostra una panoramica dei diversi indici dei mercati emergenti.

Mentre i canali di trasmissione tendono ad essere sempre gli stessi, l’entità dell’impatto positivo o negativo del deprezzamento di una valuta varia in base a molteplici fattori, in particolare il grado di apertura dell’economia (in termini di scambi commerciali, servizi e conto dei movimenti di capitale), e il regime valutario.

Contrariamente a quanto è accaduto nelle crisi precedenti, ad esempio prima del 2001 quando quasi tutti i mercati emergenti investibili avevano regimi di cambio fissi o intermedi, come l’ancoraggio della moneta, al giorno d’oggi il 58% dell’indice in valuta forte e il 78% di quello in valuta locale sono costituiti da Paesi che hanno adottato regimi di cambio flessibile, secondo la classificazione del Fondo monetario internazionale (FMI).

Un sistema valutario con cambio flessibile funge da cuscinetto economico in un ambiente caratterizzato da una minore abbondanza di capitale. Riduce infatti al minimo il drenaggio delle riserve in valuta estera e può contribuire al regolamento delle partite correnti quando si rende necessaria una correzione a seguito di cambiamenti nelle ragioni di scambio o perché un Paese deve riguadagnare competitività. Questo è un aspetto importante, dato che possedere livelli adeguati di copertura delle riserve è una condizione necessaria al servizio del debito in valuta forte. Le crisi del passato in regimi di cambio fisso, intermedio e flessibile sono state oggetto di numerose analisi e le conclusioni, in genere, suggeriscono che i regimi flessibili sono i meno vulnerabili, in quanto la valuta agisce come ammortizzatore degli shock.

Uno studio recente1 che ha preso in esame il rapporto fra regimi di cambio e crisi ha prodotto le conclusioni riassunte nel grafico 3. Questo studio utilizza due diverse classificazioni dei regimi valutari: quella del FMI e la classificazione di Ilbetzk, Reinhart e Rogoff (IRR).

In base alla classificazione del Fondo monetario internazionale (FMI), lo studio ha dimostrato che i Paesi con un regime di ancoraggio valutario attraversano fasi di crisi bancaria, valutaria o del debito con la frequenza maggiore, mentre usando la classificazione IRR, risultano più a rischio le valute in regime intermedio. Con entrambe le classificazioni, i Paesi che adottano tassi di cambio flessibili risultano aver subito storicamente il numero minore di episodi di crisi.

Da quando i mercati hanno iniziato a scontare la riduzione del QE da parte della Fed a metà dell’anno scorso, quasi tutte le valute dei mercati emergenti hanno perso valore, in termini nominali e reali; in alcuni casi, è stato un processo ordinato, con una perdita di riserve minima (ad esempio per i Paesi con cambio flessibile come Sudafrica, Messico e Colombia), in altri è avvenuto con un processo brusco (per Paesi quali Argentina, Kazakistan e Ucraina, con un tasso di cambio gestito, regime noto anche come “dirty peg”).

Un parametro semplice per stabilire se una valuta sia fondamentalmente sotto o sopravvalutata è il tasso di cambio effettivo reale, che serve a determinare il valore di una valuta nei confronti di un paniere di altre valute, sulla base dei tassi di cambio nominali e delle variazioni dei prezzi relativi. Il concetto fondamentale è che le deviazioni ampie sono indicative di sopra o sottovalutazione, a parità di altri fattori (ossia, in assenza di cambiamenti fondamentali in termini di ragioni di scambio, livelli di produttività o altri aspetti strutturali di un’economia, come mostra il grafico 4).

Vale la pena sottolineare che il deprezzamento di una valuta non implica necessariamente una crisi valutaria. Tale fenomeno, infatti, non sempre è negativo per un credito, ad esempio se le posizioni valutarie nel bilancio del settore pubblico e societario sono sostanzialmente equilibrate, se il Paese gode di credibilità riguardo al regime di obiettivi di inflazione e tiene sotto controllo le aspettative di inflazione, e se l’impatto fiscale è di entità limitata. Può essere addirittura favorevole se nel Paese in questione ci sono settori che possono beneficiare di una maggiore competitività o se l’impatto sui conti pubblici è positivo, ad esempio nel caso degli esportatori di petrolio. Un esempio è la recente svalutazione del 18% del tenge kazako. Nonostante il deprezzamento della valuta, gli spread del Kazakistan non si sono ampliati. Investiamo con fiducia nel debito in valuta forte dei Paesi in cui una svalutazione non implica una crisi valutaria.

L’impatto della valuta può essere rilevante per gli investitori, quindi è importante effettuare scelte efficaci in termini di allocazione del patrimonio e selezione dei titoli. Ad esempio, in Sudafrica l’indice locale è sceso del 5,4% tra il 15 settembre e il 31 dicembre 2013, mentre l’indice in valuta forte ha guadagnato il 2,3% (in termini di dollari USA). La banca centrale sudafricana non è intervenuta in quel periodo e le riserve internazionali nette del Paese sono rimaste stabili. La situazione è molto diversa rispetto a dieci anni fa, quando le riserve nette del Sudafrica erano negative a causa dell’esposizione corta del Paese al dollaro statunitense creata da vendite a termine.

Il valore equo non è facile da stabilire con precisione. I metodi disponibili per calcolarlo sono diversi. Il Fondo monetario internazionale, ad esempio, ne impiega tre che spesso producono risultati contrastanti.

I parametri basati sulla parità del potere d’acquisto (PPP), d’altra parte, sono di semplice costruzione, ma non tengono conto di vari elementi che influiscono sulle valutazioni, come i cambiamenti strutturali in seno a un’economia o le variazioni a livello di produttività e di ragioni di scambio. In ogni modo, solitamente possono evidenziare deviazioni rilevanti. In alcuni Paesi, come ad esempio l’India e l’Indonesia, si comincia già a vedere un riequilibrio e una riduzione dei deficit delle partite correnti, e questo ha contribuito a sostenere le valute e i mercati obbligazionari locali. Altre divise appaiono teoricamente sottovalutate (rand sudafricano e lira turca), ma questa condizione non si è ancora tradotta in un assottigliamento del disavanzo dei conti correnti. In termini di posizionamento, diamo preferenza alle valute con squilibri di lieve entità, come il peso messicano e il peso filippino, o a quelle caratterizzate da un carry elevato, per le quali il processo di ribilanciamento è già in corso, come la rupia indonesiana e la rupia indiana

1Crises and exchange rate regimes: Time to break down the bipolar view? Combes, Minea, Sow, ottobre 2012

Tassi d’interesse più alti

Diverse banche centrali, tra cui quelle brasiliana, indonesiana e sudafricana, hanno dovuto adottare politiche monetarie più restrittive in via preventiva, per ancorare le aspettative di inflazione; altre hanno agito in reazione a pressioni valutarie, come è stato il caso della Turchia, dove l’ampio deficit delle partite correnti ha reso necessario l’innalzamento dei tassi d’interesse per attrarre nuovi finanziamenti.

In media, i tassi d’interesse nominali si attestano al 7% e quelli reali intorno al 3%. Siamo convinti che, come nel caso dei rendimenti sui Treasury statunitensi, i tassi reali a medio e lungo termine sul debito in valuta locale siano destinati ad aumentare, ma parte dell’adeguamento si è già concretizzato (si veda il grafico 5).

Le valute più deboli e i tassi d’interesse più alti tenderanno a ridurre la crescita, in particolare nei Paesi che non traggono vantaggio da un aumento della competitività o delle esportazioni non legate alle commodity. L’FMI ha mantenuto invariate le proiezioni di crescita per le economie emergenti nel rapporto di gennaio (5,1% per il 2014 e 5,4% per il 2015), ma ci aspettiamo revisioni al ribasso nell’imminente rapporto di aprile, dato che per alcune economie di rilievo (Russia e Cina) le difficoltà sono aumentate. La combinazione di tassi d’interesse più alti e crescita inferiore richiederà un adeguamento fiscale (potenzialmente pro-ciclico) in alcuni Paesi che devono stabilizzare le rispettive dinamiche di debito.

Flussi di capitale

La Banca mondiale ha lanciato di recente un allarme per il potenziale crollo dei flussi di capitali verso i mercati emergenti, nell’eventualità di un rialzo del 2% dei tassi a lungo termine sui mercati sviluppati. Tuttavia, in base alle tendenze recenti (il calo degli afflussi è già iniziato), lo scenario di riferimento riflette l’aspettativa di un declino dei flussi piuttosto modesto dai livelli attuali. Questa ipotesi trova conferma anche nelle previsioni dell’Istituto di finanza internazionale (IIF), che indica flussi in diminuzione nel 2014, ma in ripresa nel 2015 (si veda il grafico 9).

Per quanto riguarda il mercato obbligazionario, da quando si è diffusa la paura del “tapering” e i fondi specializzati nei mercati emergenti hanno iniziato a vedere deflussi costanti, nella maggior parte dei casi i Paesi sono comunque riusciti a reperire finanziamenti sui mercati internazionali dei capitali, e anzi, il ritmo di emissione è tornato al livello tendenziale degli anni passati, dopo il rallentamento evidenziato intorno alla metà del 2013. Tuttavia, nell’eventualità di un arresto improvviso, un fattore che può mitigare l’impatto sui flussi di capitali è la presenza di prestatori ufficiali, come il Fondo monetario internazionale.

Se è vero che alcuni Paesi riterrebbero inaccettabile un programma finanziato, per motivi ideologici o politici, per altri si tratterebbe di una soluzione di ultima istanza ragionevole. I Paesi con politiche supportate da un solido quadro di riferimento hanno accesso a linee di finanziamento come la Flexible Credit Line (linea di credito flessibile, FCL) o la Precautionary and Liquidity Line (linea di liquidità precauzionale, PLL), che consentono di ottenere prestiti con un preavviso breve, in caso di necessità. Attualmente l’FMI ha una capacità effettiva di prestito (forward commitment capacity o FCC) di 415 miliardi di dollari, un valore che equivale al 75% dei flussi di portafoglio (esclusi gli investimenti diretti esteri) che, secondo le stime, sono arrivati sui mercati emergenti nel 2013.

I Paesi che necessitano di un adeguamento, ma non stanno reagendo oppure offrono risposte non ottimali, sono destinati a sottoperformare e a risultare particolarmente vulnerabili qualora si concretizzi l’ipotesi di un arresto improvviso. Alcuni esempi di risposte inadeguate sono un rigore fiscale o monetario insufficiente (laddove richiesto), le restrizioni ai deflussi di capitali, i regimi di cambio multipli, le misure di controllo dei prezzi, il depauperamento delle riserve in valuta estera e/o il mantenimento di tassi di cambio sopravvalutati. I Paesi che riteniamo preoccupanti, da questo punto di vista, sono Venezuela, Ghana, Mongolia e Nigeria, con l’aggiunta di qualche altro Stato della regione caraibica e di quella sub-sahariana.

Misure correttive sul fronte fiscale

Uno degli aspetti più difficili del ribilanciamento sarà costituito dagli adeguamenti fiscali per i Paesi che presentano ampi deficit dei conti pubblici o che devono effettuare un’ulteriore contrazione monetaria per ancorare le dinamiche di inflazione o di debito. È questo il caso, ad esempio, di Brasile, Argentina, Venezuela, Serbia, Ucraina e Ghana. Probabilmente sarà una delle ultime fasi di questo processo, poiché comporta costi politici e i governi spesso agiscono solo in modo reattivo, se si trovano sotto la pressione dei mercati (spread più ampi e accesso ridotto ai mercati dei capitali), delle agenzie di rating (se il credito viene declassato) e/o dei criteri di performance o di azioni precedenti richieste da un programma dell’FMI cui il Paese sia assoggettato. La pressione di norma aumenta in quest’ordine. I governi non hanno margine di manovra per effettuare interventi massicci sui conti pubblici nei periodi che precedono un voto e quest’anno sono in programma molte elezioni: ciò significa che le misure correttive saranno rinviate.

Spread più ampi

Siamo convinti che la qualità del credito nell’ambito delle obbligazioni dei mercati emergenti abbia toccato il punto più alto, in quanto alcuni dei fattori che hanno contribuito alla maggiore affidabilità creditizia – in particolare, l’accumulo di riserve e le condizioni monetarie accomodanti a livello locale e globale – si sono deteriorati nei mesi recenti. Ad esempio, tra le difficoltà che i mercati emergenti devono affrontare figurano il tasso di crescita tendenziale in calo in alcuni Paesi chiave, come la Cina, e il peggioramento delle ragioni di scambio di cui godono attualmente molte nazioni emergenti. Tuttavia, l’ampliamento degli spread del debito sovrano in valuta forte, in termini assoluti, sta già scontando in media un declassamento di un livello.

Per questi motivi, ci aspettiamo un abbassamento del rating per Brasile, Bahamas, Bermuda, Bahrain e Mongolia, e un innalzamento per Filippine, Colombia, Paraguay e Angola.

In termini relativi, le obbligazioni dei mercati emergenti hanno sottoperformato i titoli high yield e investment grade e le emissioni sovrane dell’Europa periferica, quindi il mercato sconta già un certo deterioramento del credito (si veda il grafico 6).

Ribilanciamento della Cina

La Cina è il Paese in cui il processo di ribilanciamento è particolarmente critico, considerando le dimensioni dell’economia e l’impatto sui mercati globali. Partendo dal presupposto che una riduzione strutturale della crescita tendenziale sia inevitabile, resta da vedere se si verificherà in maniera ordinata o disordinata.

Crediamo che le autorità, ben consapevoli delle sfide, siano chiamate a compiere varie scelte politiche delicate:

  • consentire un declino graduale della crescita degli investimenti, ma senza produrre un crollo precipitoso nell’economia o in settori come quello immobiliare;
  • dirigere il settore finanziario verso una maggiore flessibilità dei cambi e dei tassi d’interesse;
  • ridurre il ritmo della creazione di credito;
  • consentire alle forze di mercato di determinare il rischio di credito e ridurre l’azzardo morale;
  • affrontare la corruzione e schivare gli interessi costituiti nelle società a controllo statale,
  • rendere più trasparenti le operazioni di finanziamento condotte da soggetti del sistema bancario ombra e dai governi locali;
  • ridurre la disparità di reddito e gestire le pressioni sociali man mano che l’economia rallenta.

In alcuni casi, si sta già provvedendo ad affrontare queste sfide (parziale flessibilità valutaria e dei tassi d’interesse, aumento delle eccezioni alla regola del figlio unico in risposta al peggioramento delle dinamiche demografiche), ma chiaramente c’è ancora molto da fare.

Uno dei fattori positivi per la Cina è l’ampia posizione di riserve internazionali nette, oltre al risparmio nazionale particolarmente elevato. Crediamo che i mercati siano troppo concentrati sul ritmo della crescita cinese. Dal nostro punto di vista, è preferibile una crescita più modesta, ma sostenibile e qualitativamente migliore, piuttosto che una percentuale determinata (si veda il grafico 7).

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Continuiamo a monitorare la situazione in vista di un potenziale effetto negativo propagato dalla Cina ai mercati emergenti e stiamo gestendo questi rischi sia attraverso una selezione attenta della nostra esposizione diretta alla Cina, sia evitando l’esposizione a crediti e valute che potrebbero essere penalizzati da un deprezzamento dei prodotti primari (in particolare i metalli industriali). In quest’ultima categoria sono inclusi i crediti più deboli, associati ad ampi deficit delle partite correnti e/o di bilancio, che si troveranno sotto pressione nell’eventualità di un marcato deterioramento delle ragioni di scambio (ad esempio la Mongolia, lo Zambia e il peso cileno).

Rischio politico

In aggiunta ai rischi economici, anche i rischi politici e quelli legati alle misure politiche contribuiranno a definire i prezzi degli asset in gran parte dell’area emergente. Sono in programma passaggi elettorali in 15 Paesi importanti (si veda il grafico 8), tra cui India, Indonesia, Turchia, Sudafrica, Brasile e Ucraina. Stiamo seguendo attentamente anche l’evoluzione del malcontento popolare e dell’aspro confronto politico in Venezuela e in Thailandia. Il rischio politico è un elemento molto soggettivo. Esistono decine di indici che classificano i Paesi in base alla qualità delle istituzioni, al livello di corruzione e sicurezza, allo stato di diritto e fattori simili, ma determinare il valore di questi elementi in termini di spread o di corso della valuta non è mai un compito facile. L’aspettativa di cambiamenti a livello politico o di misure politiche spesso accentua la domanda di asset sicuri e la fuga di capitali degli investitori sia locali che esteri. Questo fenomeno in genere si manifesta inizialmente con un indebolimento della valuta, ma può trasmettersi anche agli spread, quando è accompagnato da un calo delle riserve o in quei Paesi in cui la valuta è gestita in modo più aggressivo. Dove le istituzioni sono più forti e la probabilità di avvicendamento politico è minore, come in Cile, la volatilità sarà minima o nulla, mentre in Paesi come l’Ucraina, si produrranno cambiamenti significativi delle prospettive a livello di politica economica e alleanze future. Vediamo rischi al rialzo in Indonesia (dove i prezzi scontano un rischio politico eccessivo), rischi bilanciati in India, Brasile e Sudafrica, e rischi al ribasso in Ucraina.

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Opportunità

Il processo di adattamento dei titoli sovrani dei mercati emergenti a un ambiente di tassi più elevati e flussi di capitale inferiori crea opportunità di investimento in questa asset class. Le valutazioni sono migliorate su tutti e tre i fronti (valute, tassi locali e spread), in termini sia assoluti che relativi. Tuttavia, l’allocazione del patrimonio fra titoli sovrani (in valuta forte e in valuta locale) e societari e l’attenta selezione a livello di paese e di singoli titoli restano di importanza cruciale.

La nostra preferenza va alle emissioni governative dei Paesi meno influenzati dal calo dei flussi di capitali e che presentano oneri debitori gestibili, riserve in valuta estera stabili e/o settori bancari robusti. Fra i Paesi più vulnerabili, potremmo puntare su quelli che hanno iniziato ad adottare misure politiche nella giusta direzione. Inoltre privilegiamo i titoli quasi sovrani e societari avvantaggiati dall’indebolimento della valuta, come è il caso degli esportatori, o esposti a Paesi che mostrano, a nostro avviso, buone capacità di tenuta. Abbiamo effettuato prese di profitti su base selettiva su alcune posizioni lunghe in dollari statunitensi, in Paesi con carry elevato in cui il processo di ribilanciamento è già in corso.

Le considerazioni generali sui mercati obbligazionari per il 2014

Dopo le aspettative ampiamente diffuse di una “grande rotazione” dalle attività a reddito fisso nel 2013, gli investitori obbligazionari hanno avuto nel complesso un anno migliore di quanto previsto dodici mesi fa. Magari non sarà sembrato sempre così, e di sicuro gli investitori avranno avuto un’impressione diversa in estate, quando l’ipotesi che la Federal Reserve potesse ridurre anticipatamente le iniezioni di liquidità ha seminato il panico sui mercati. Ma le attività più a rischio, in particolare le emissioni societarie ad alto rendimento, hanno continuato a generare performance solide, e i titoli investment grade si apprestano ad archiviare un altro anno di rendimenti positivi, a dispetto della volatilità.

Nel frattempo, il quadro macroeconomico in generale è migliorato nel corso dell’ultimo anno, con una notevole accelerazione della ripresa negli Stati Uniti e, più di recente, nel Regno Unito. In Europa il quadro resta disomogeneo, mentre i mercati emergenti destano crescenti preoccupazioni. Tuttavia, al di là delle diverse prospettive, tutti i Paesi, e tutti i mercati obbligazionari, condividono almeno un fattore determinate: la Fed.

Il grande dibattito sul tapering

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Se all’inizio del 2013 il concetto di “tapering” poteva essere ignoto alla gran parte degli investitori, di certo non è più questo il caso alla vigilia del 2014. Fin dalla comparsa di questo termine nel gergo finanziario a maggio scorso, i mercati sono rimasti in balia del grande dibattito sul “tapering sì-tapering no”. Come illustrato dal grafico 1, ogni nuova pubblicazione di dati è servita solo a moltiplicare le ipotesi e, alle soglie del nuovo anno, l’esito della soap opera preferita dei mercati finanziari è ancora dubbio.

Anche se il momento esatto del tapering resta incerto, una cosa è chiara. Nell’edizione di questo documento per il 2013, avevamo espresso ottimismo per le prospettive di crescita degli Stati Uniti, visti gli sviluppi incoraggianti sul mercato immobiliare del Paese. A distanza di un anno, i motivi di quell’ottimismo sulla crescita statunitense, come il saldo delle partite correnti in miglioramento e il tasso di disoccupazione in calo costante, oltre al mercato immobiliare in ripresa, restano intatti.

Janet Yellen

Janet Yellen, attuale vicepresidente della Federal Reserve, è l’economista specializzata nel mercato del lavoro statunitense in procinto di prendere le redini della banca centrale più importante del mondo. Ha la fama di essere una “colomba”, ossia di dedicarsi più alla disoccupazione che all’inflazione, e non ci aspettiamo cambi di atteggiamento rilevanti.

Yellen ha invocato con convinzione una politica monetaria accomodante, pur riconoscendo che il QE non potrà continuare per sempre. Alla luce del retroterra professionale, è prevedibile che gli indicatori occupazionali svolgeranno un ruolo chiave nel suo processo decisionale.

Sarà interessante vedere il quadro di riferimento che la Fed dell’era Yellen adotterà per definire la linea politica nei cinque anni del suo mandato. Nello specifico, in molti interventi importanti, Yellen ha manifestato apprezzamento per le tecniche di “controllo ottimale”. In base a questo approccio, la banca centrale userebbe un modello per calcolare il percorso ottimale dei tassi d’interesse a breve termine, ai fini del raggiungimento del duplice obiettivo di stabilità dei prezzi (inflazione al 2%) e piena occupazione (tasso di disoccupazione inferiore al 6%). In un discorso tenuto a novembre del 2012, Yellen ha mostrato che la politica monetaria definita in base al “controllo ottimale” suggerirebbe un tasso sui fondi federali prossimo allo zero fino al 2016. La strategia del controllo ottimale indicherebbe alla Fed di assumere un atteggiamento più aggressivo nell’ottica di combattere la disoccupazione superiore al livello obiettivo, il che implica tassi a breve più bassi più a lungo.

A giudicare dalle parole pronunciate di recente da Yellen, l’abbandono della politica monetaria accomodante non sembra ipotizzabile fino a quando non si riscontreranno miglioramenti decisi in termini di:

  • ritmo della crescita del numero di occupati;
  • flussi occupazionali lordi;
  • spesa ed espansione dell’economia.

Di conseguenza, ci aspettiamo una conferma della politica monetaria ultra-espansiva della Fed. Tuttavia, per quanto facile sia etichettare i banchieri centrali come “falchi” o “colombe”, questo esercizio rischia di mettere in ombra il vero fattore alla base della politica monetaria, ovvero i dati. Di fronte a solidi segnali di trazione della crescita, non potremmo escludere la possibilità che la Fed guidata da Yellen inizi a ridurre il QE in anticipo sulle aspettative del consenso, per riaffermare la propria credibilità di baluardo anti-inflazione.

Ci aspettiamo un apprezzamento del dollaro USA nel 2014. Avevamo già espresso in precedenza una preferenza per il biglietto verde rispetto alle valute dei mercati emergenti e dei Paesi esportatori di materie prime, dopo la fase di debolezza nel terzo trimestre del 2013, e ora consideriamo il dollaro preferibile anche in confronto a tutte le altre valute principali. E saranno validi anche nel 2014 gli altri fattori favorevoli di lungo termine all’origine della nostra visione positiva sul dollaro (sempre più condivisa da altri osservatori), come la valutazione conveniente in seguito a un decennio di declino e il rapido avanzamento verso l’indipendenza energetica. In un mondo in cui il Regno Unito mantiene un ampio deficit delle partite correnti, l’Europa sta valutando tassi di deposito negativi e il Giappone è deciso ad attuare una politica di indebolimento dello yen, il dollaro statunitense è la valuta meno sottoposta a pressioni sul piano tecnico e dei fondamentali.

Ora che la scena è pronta per l’evento principale del 2014, il consenso indica marzo come il momento più probabile per l’avvio del tapering. Tuttavia, potrebbero entrare in gioco varie considerazioni. Un primo aspetto riguarda i dati sulla crescita: le stime relative all’impatto del recente shutdown del governo americano sul PIL del quarto trimestre variano molto e la Fed vorrà avere conferma della solidità della ripresa economica prima di sottrarle parte del sostegno. Peraltro, la soluzione al problema del tetto del debito trovata in ottobre è solo temporanea e gli Stati Uniti saranno costretti ad affrontare di nuovo la questione nel nuovo anno.

Intanto, sul fronte dell’occupazione si stima che l’aumento dei posti di lavoro pari a 175-200 mila unità al mese sia sufficiente per esercitare una significativa pressione al ribasso sulla disoccupazione, soprattutto se il tasso di partecipazione resta al livello attuale, estremamente modesto. Viste le tendenze demografiche, non ci aspettiamo un incremento rilevante di questo parametro: l’invecchiamento della popolazione statunitense ne sta frenando l’ascesa, in quanto il tasso di partecipazione è inferiore per i lavoratori più anziani, molti dei quali si stanno avvicinando alla pensione.

Quand’anche il tapering dovesse cominciare in marzo, bisogna tenere presente che si tratta solo di una riduzione delle misure di stimolo, destinate comunque a continuare. La Fed è determinata a fare in modo che sia assolutamente chiaro, tanto per l’economia reale quanto per i mercati finanziari, che l’effettivo rialzo dei tassi d’interesse è ancora di là da venire.

Come abbiamo visto negli ultimi mesi dalla reazione dei rendimenti obbligazionari alle ipotesi di tapering in tutto il mondo, nessun paese è immune alle decisioni della Fed. Tuttavia, le aspettative di un ampio ribasso per il mercato dei titoli di Stato potrebbero essere deluse. L’inflazione al momento è bassa e le banche centrali mondiali agiranno in modo molto graduale qualora decidano di ridurre lo stimolo monetario. Probabilmente non ci saranno rialzi dei tassi d’interesse ancora per anni, il che limita la possibilità di ribassi consistenti in ambito obbligazionario.

Ciò non toglie che la volatilità sui mercati dei Treasury statunitensi e il dollaro in ascesa potrebbero avere un impatto notevole sulle obbligazioni dei mercati emergenti. Manteniamo un atteggiamento prudente nei confronti di questa asset class già da un paio d’anni. Il nostro timore è che la bolla creatasi nei mercati emergenti, principalmente per effetto dell’impennata degli afflussi nei fondi, sia minacciata da un divario valutativo storicamente ridotto e dalle migliori prospettive per il dollaro. Inoltre stiamo osservando con preoccupazione quello che consideriamo un deterioramento dei fondamentali della regione emergente. A nostro avviso, tutto questo sta creando le condizioni per una possibile “tempesta perfetta” sull’asset class, in cui qualsiasi iniziativa della Fed per avviare il tapering potrebbe innescare deflussi massicci, un rischio molto concreto di crisi valutarie e/o bancarie e un contagio molto esteso.

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Inflazione: un fenomeno evanescente?

Un aspetto che ha lasciato perplessi banchieri centrali, investitori obbligazionari ed economisti fin dall’esordio della crisi finanziaria è l’inflazione, o meglio, la sua assenza. Tradizionalmente l’inflazione è considerata sempre e comunque un fenomeno monetario, quindi si temeva che la politica monetaria straordinaria degli ultimi anni potesse dare vita a un’inflazione galoppante negli Stati Uniti, come pure in Europa e nel Regno Unito. Abbiamo sentito delle svalutazioni monetarie operate da governi e banche centrali per guadagnare competitività. L’unica via di uscita dai problemi di debito del mondo occidentale sarebbe una repressione finanziaria abbinata a una sana dose di inflazione.

Sono passati più di cinque anni da quando l’economia globale è sprofondata nella crisi. Nel mondo sviluppato l’inflazione sembra sorprendentemente sotto controllo, nonostante i livelli record di stimolo e stampa di moneta. Se nel Regno Unito l’inflazione è rimasta vischiosa, in parte a causa degli aumenti dei prezzi regolamentati dei servizi di pubblica utilità, negli Stati Uniti e in Europa il dato è ampiamente al di sotto degli obiettivi delle banche centrali. Indubbiamente le rigide misure di austerità fiscale adottate da molti governi hanno contribuito al declino del caro vita e oggi i banchieri centrali temono piuttosto che l’inflazione sia troppo bassa, una situazione probabilmente destinata a protrarsi anche nel 2014.

A nostro avviso, esiste una spiegazione semplice del motivo per cui l’aumento massiccio dell’offerta di moneta non ha creato pressioni inflative: questa liquidità non è entrata nell’economia reale. Le banche commerciali dispongono di ampie riserve liquide, ma non concedono molti nuovi prestiti (come illustra il grafico 2). Per fortuna, sembra che ora stiano iniziando ad allentare i criteri di prestito, anche se è ancora difficile trovare mutuatari affidabili, soprattutto in Paesi come Spagna, Grecia, Cipro e Irlanda. La ripartenza dell’attività di prestito sarà un processo lento. Per i banchieri centrali è preoccupante che i Paesi con una crescita dei prestiti fiacca o negativa sembrino anche i più esposti al rischio di deflazione.

Nel momento in cui questa attività dovesse riprendere quota, il fenomeno indicherebbe probabilmente un rafforzamento della qualità della crescita economica e un miglioramento delle prospettive per la fiducia delle imprese e dei consumatori. Tuttavia, gli investitori obbligazionari non devono trarre da tali sviluppi un eccessivo senso di sicurezza. Il timore più grande per i banchieri centrali è che le riserve delle banche inondino l’economia, provocando un aumento dei prezzi e il disancoraggio delle aspettative di inflazione. È in momenti come questi che gli investitori devono essere particolarmente attenti.

Nel 2013 abbiamo lanciato il Sondaggio M&G YouGov sulle aspettative di inflazione, un’indagine trimestrale che misura la percezione delle tendenze inflative da parte dell’opinione pubblica nel Regno Unito, in Europa e in Asia. Se è vero che il Fondo monetario internazionale ha descritto l’inflazione come “il cane che non abbaia”, abbiamo seri dubbi che la museruola funzionerà per sempre. Peraltro, l’evoluzione della politica monetaria, dal perseguimento degli obiettivi di inflazione alle indicazioni prospettiche, implica un attento monitoraggio delle aspettative di inflazione sia da parte delle autorità monetarie che dei mercati. Il primo segnale che il caro vita sta diventando un problema si manifesterà attraverso i sondaggi sulle aspettative di inflazione come il nostro, quindi la vigilanza è fondamentale.

Se l’inflazione dovesse riemergere, i banchieri centrali si troveranno ad affrontare un grosso dilemma sul piano delle politiche. In M&G abbiamo spesso citato il “cambio di regime delle banche centrali”, ossia l’allontanamento dagli obiettivi di inflazione a favore di misure di stimolo alla crescita economica (che contribuisce all’erosione degli ampi oneri debitori), fra i motivi sottesi all’investimento in asset come le obbligazioni societarie indicizzate e i titoli a tasso variabile. Il rischio di errore nella politica monetaria non è mai stato così alto.

La ricetta per la reflazione di un’economia forse si può trovare in Giappone, dove le “tre frecce” della cosiddetta “Abenomics”, ossia allentamento monetario, politica fiscale flessibile e riforme strutturali, rappresentano un importante esperimento di economia moderna. Le tre frecce si sono dimostrate la migliore opportunità avuta finora dal Giappone per liberarsi dalla morsa della deflazione. La teoria è semplice: la combinazione di allentamento aggressivo, politica fiscale flessibile e una strategia di inflazione più elevata farà scendere i tassi d’interesse reali producendo un incremento dei consumi e degli investimenti, e dando impulso alla competitività delle esportazioni attraverso lo yen più debole.

Vediamo segnali incoraggianti di successo delle politiche di Abe. Lo yen ha registrato una flessione del 15,3% contro il dollaro USA nel 2013. I mercati azionari giapponesi guadagnano il 53% da inizio anno. L’economia è cresciuta di un incisivo 2,5% nell’arco di nove mesi. Anche la fiducia sta risalendo e, soprattutto, le aspettative di inflazione sono in aumento (vedi grafico 3). Questo non significa che il futuro sia esente da rischi e difficoltà. L’alto livello del debito pubblico giapponese è sostenuto in larga misura con l’intercettazione dei finanziamenti interni, e il rischio maggiore è che il collasso dello yen e i tassi d’interesse reali negativi possano provocare una fuga di massa dei risparmiatori nipponici, tale da mettere in dubbio la solvibilità del governo.

Sarà essenziale monitorare il Giappone nel 2014, dato che la sua esperienza potrebbe offrire ai banchieri centrali e ai politici, soprattutto europei, un piano d’azione per far ripartire l’economia.

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Le prospettive dei mercati obbligazionari per il 2014

Titoli di Stato: un ambiente favorevole, nonostante il tapering

I mercati si presentano alle porte del 2014 in una forma decisamente migliore rispetto a un anno fa. Quasi tutti gli indici azionari sono in rialzo per il 2013, i rendimenti sui titoli di Stato dell’Europa meridionale risultano in forte calo e i Treasury hanno recuperato terreno dopo il rinvio del tapering deciso a sorpresa dalla Fed in settembre. Ma questo esito positivo non è frutto di dati solidi né di una soluzione a lungo termine della crisi del debito europea. La crescita è vicina o inferiore ai livelli tendenziali nella maggior parte delle economie, mentre i prezzi degli asset sono stati ampiamente supportati da livelli di allentamento quantitativo senza precedenti.

La regola di Taylor

Fin da quando i saggi d’interesse hanno raggiunto la fascia dei tassi zero nelle principali economie sviluppate, abbiamo cercato di stabilire cosa suggerirebbe la regola di Taylor riguardo ai tassi delle banche centrali di Stati Uniti, Regno Unito ed Europa. La regola di Taylor è un semplice criterio di politica monetaria che indica come la banca centrale di un Paese dovrebbe adeguare i tassi d’interesse in risposta alle variazioni dell’inflazione e dell’attività economica.

Si può utilizzare per spiegare il modo in cui è stata definita la politica in passato, o per capire se la politica monetaria corrente sia idonea allo stato dell’economia. Inoltre, può essere utile come guida per gli economisti impegnati a stabilire il possibile corso futuro dei tassi d’interesse. Risulta interessante per la sua relativa semplicità, in quanto per applicarla basta conoscere la direzione del tasso d’inflazione corrente, in rapporto al livello obiettivo, e il divario di produzione.

Dal punto di vista della Fed, la regola tiene conto in modo appropriato del duplice mandato di massimizzare l’occupazione in un contesto di stabilità dei prezzi. Per quanto ne esistano molte versioni, Yellen ha mostrato una preferenza per quella del 1999 che, vale la pena sottolinearlo, ha comportato un tasso sui Fed fund pari o inferiore allo zero fin dalla fine del 2009.

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La storia non è molto diversa per il Regno Unito e l’Europa. Entrambe le regioni hanno sorpreso i mercati di recente con un’inflazione inferiore alle attese (e indici dei prezzi al consumo in ottobre rispettivamente al 2,2% e allo 0,7%). Secondo la regola di Taylor, con un’inflazione così lontana dall’obiettivo del 2%, la Banca centrale europea dovrebbe allentare in maniera decisa la politica monetaria, magari oltre il taglio di novembre allo 0,25% fino a una possibile discesa in territorio negativo.

Anche gli investitori possono usare la regola di Taylor per valutare la probabilità che i tassi a breve termine reagiscano all’evoluzione delle condizioni economiche. Considerando la recente tendenza al ribasso dell’inflazione, la regola di Taylor implica che i tassi d’interesse resteranno bassi più a lungo (grafico 6), una notizia che come gestori di fondi obbligazionari accogliamo con favore.

Quasi tutte le regioni dovranno affrontare sfide importanti nel 2014, a cominciare dagli alti livelli di debito pubblico e privato. Tuttavia, con l’inflazione che si prospetta contenuta e i tassi delle banche centrali destinati probabilmente a restare eccezionalmente bassi, l’ambiente dovrebbe rivelarsi ancora relativamente positivo per i titoli di Stato, nonostante i rendimenti più elevati e la volatilità legata al tapering. Al di là delle possibili pressioni al rialzo sui rendimenti delle obbligazioni governative a più lunga scadenza, saremmo restii ad adottare una visione troppo ribassista sull’asset class, dato che il segmento breve della curva rimarrà probabilmente ben ancorato ai livelli attuali. La politica monetaria sarà ancora fortemente accomodante, a dispetto delle prospettive di crescita in lento miglioramento.

Obbligazioni societarie: aspettative da rivedere

Negli ultimi anni, gli investitori in obbligazioni societarie sono stati molto ben remunerati e l’asset class ha beneficiato anche di una volatilità bassa e di afflussi a base ampia. Con il ritorno degli spread verso le medie di lungo periodo (grafico 4), c’è chi dubita che i titoli societari possano continuare a sovraperformare, soprattutto in un ambiente di fiducia e umore degli investitori in miglioramento.

Da parte nostra, manteniamo una visione positiva sui fondamentali delle obbligazioni societarie. Con la ripartenza della crescita nel mondo sviluppato, i tassi di default dovrebbero restare bassi e, come già accennato, l’inflazione non rappresenta un problema nel breve termine. Questi due fattori suggeriscono che l’asset class dei titoli societari sarà ancora una scelta valida per gli investitori in cerca di buoni rendimenti adeguati al rischio.

Dopo i guadagni del 5,2%, 10,8% e 0,3% generati negli anni 2011, 2012 e 2013 (alla fine novembre), gli investitori devono ricalibrare le aspettative riguardo alle obbligazioni societarie investment grade. L’imminente riduzione del sostegno da parte delle banche centrali potrebbe creare volatilità sui mercati delle attività a rischio. In questo senso, il dibattito sul tapering del 2013 fornisce un’indicazione di cosa aspettarci nel 2014. Tuttavia, con un inizio anno caratterizzato da spread ridotti rispetto al 2013 e vicini alle medie storiche, il premio per il rischio sarà probabilmente inferiore. Nella maggior parte dei casi, il mercato del credito faticherà a offrire un compenso di molto superiore alle rispettive cedole, ma gli investitori continuano a preferire le emissioni societarie ad altri asset obbligazionari meno remunerativi.

Chi ha investito nei mercati globali high yield ha ottenuto guadagni straordinari negli ultimi due anni, complessivamente superiori al 26% in termini cumulativi dal 2012. Di conseguenza, i rendimenti sono crollati a livelli prossimi ai minimi record: dal 7,7% del 2011 al 5,7% attuale. Per noi l’high yield può essere un’area interessante del mercato a reddito fisso per ottenere buone remunerazioni in un ambiente di riaccelerazione della crescita economica e tassi di default bassi.

Tuttavia, questo non significa che gli investitori possano riposare sugli allori. L’ambiente attuale favorevole per il credito ha portato con sé un deterioramento della qualità delle emissioni (misurata dai rating e dalla leva finanziaria), tutele strutturali più deboli, ad esempio in termini di vincoli legali, il ritorno delle obbligazioni con cedola in natura, come pure cedole inferiori sui titoli di nuova emissione, il che ha determinato, a sua volta, remunerazioni attese più basse. Siamo convinti che, in alcuni casi e, in particolare, per i titoli high yield di qualità inferiore come quelli di categoria CCC, gli spread del credito non compensino gli investitori in misura adeguata per il potenziale aumento delle inadempienze in futuro.

In un ambiente di questo tipo, la performance relativa sarà trainata sempre di più dalla scelta dei singoli titoli e anche il posizionamento settoriale avrà più peso, in confronto agli ultimi anni. Per gli investitori obbligazionari e i team di analisti del credito è più importante che mai studiare la situazione con diligenza, soprattutto se il mercato del credito europeo seguirà quello statunitense (come mostra il grafico 5) in un’era di reindebitamento e rischi di LBO più elevati per le imprese.

Obbligazioni dei mercati emergenti: un invito alla cautela

La possibile revisione della politica monetaria statunitense è chiaramente il rischio più serio che si prospetta per i mercati emergenti globali nel 2014. Al di là di questo, ci aspettiamo che la regione emergente risentirà soprattutto degli sviluppi in Cina. I problemi con cui dovrà vedersela l’economia cinese sono ben documentati, ma è possibile che gli investitori stiano ancora sottovalutando il rischio di un rallentamento, errore che potrebbe costare caro. L’economia cinese è tuttora squilibrata: quasi il 50% del PIL deriva dagli investimenti fissi lordi, contro una quota di un terzo nel 1997. L’enorme capacità in eccesso, l’indebitamento delle imprese già elevato e in ascesa e un settore privato sempre più marginalizzato sono altri sintomi di squilibri profondamente radicati nel tessuto economico del Paese.

Soglie di innesco troppo facili da abbattere

In tanti si sono affrettati a criticare l’evoluzione dell’approccio della Banca d’Inghilterra alla politica monetaria promossa dal nuovo governatore Mark Carney. Le indicazioni prospettiche, che consistono essenzialmente in una promessa sui tassi d’interesse futuri, sono il nuovo pilastro della politica della banca centrale britannica. Il problema è che il mercato ha largamente ignorato l’impegno della Banca d’Inghilterra a mantenere il tasso base allo 0,5% fino a quando la disoccupazione non raggiungerà il 7%. L’ascesa dei rendimenti sui gilt e della sterlina, in vista di un rialzo dei tassi anticipato, hanno determinato una contrazione di fatto delle condizioni finanziarie. Ciò potrebbe creare qualche ostacolo al raggiungimento della crescita economica, ossia proprio quello che la Banca d’Inghilterra sta cercando di evitare con l’adozione delle indicazioni prospettiche.

Gli stessi banchieri centrali hanno comunicato di recente al mercato di ritenere probabile al 50% un calo della disoccupazione al 7% entro la fine del 2014, 18 mesi prima di quanto stimato in agosto. Ma la disoccupazione non è l’unico fattore. La Banca ha parlato anche di tre “soglie di innesco” che, se superate, smentirebbero le indicazioni prospettiche. Riguardano le previsioni di inflazione, le aspettative di inflazione e la stabilità finanziaria.

La soglia del tasso di disoccupazione al 7% sembra il fattore destinato a costituire la sfida maggiore per le indicazioni prospettiche nel 2014, considerando la ripresa dell’economia britannica. Un calo della disoccupazione fino a questo livello non farebbe necessariamente scattare un rialzo dei tassi d’interesse, ma provocherebbe una revisione della politica monetaria a breve termine. Se gli altri fattori restano relativamente allineati, non escluderemmo un abbassamento della soglia stabilita nelle indicazioni prospettiche per il tasso di disoccupazione, al 6,5% o a un livello anche inferiore.

A nostro avviso, le soglie di innesco sembrano tutte relativamente facili da abbattere, e questo è un problema per la Banca d’Inghilterra. Il mercato concorda e si aspetta un rapido abbandono delle indicazioni prospettiche, con buona pace di Carney. La contrazione delle condizioni finanziarie attualmente in atto probabilmente produrrà, con effetto ritardato, un rallentamento dello scatto di crescita visto di recente nel Regno Unito.

Il governo mostra di comprendere la situazione precaria dell’economia e sta intervenendo gradualmente per porvi rimedio. Tuttavia, a prescindere dalla strada che Pechino imboccherà verso le riforme, nei prossimi tre anni riteniamo inevitabile un aumento delle inadempienze societarie e dei crediti in sofferenza, oltre a una stretta creditizia di entità più o meno marcata. Guardando alle esperienze esemplari dell’Unione Sovietica negli anni ’60-’70, del Giappone negli anni ’70-’80 e del sud-est asiatico negli anni ’80-’90, un ribilanciamento dell’economia cinese, dal binomio investimenti-esportazioni ai consumi, probabilmente comporterà tassi di espansione del PIL più modesti. La Cina continuerà a crescere e il ritmo sarà ancora sostenuto, ma più vicino al 5-6% che al 10%.

Un rallentamento in Cina è destinato a provocare una flessione delle valute dell’Asia emergente. Siamo convinti che i deflussi di capitale e le possibili difficoltà per l’attività commerciale potrebbero incidere sulle valute locali anche in misura del 10%. L’adozione di controlli sui capitali per frenare la fuga potrebbe arrestare il crollo, ma sembra improbabile dato il danno a lungo termine che provocherebbe sulla fiducia degli investitori.

L’avvio della riduzione del QE da parte della Fed nel 2014, come da previsioni, sottrarrebbe ai mercati emergenti un supporto tecnico cruciale. I rendimenti obbligazionari in ascesa, anche se all’interno di un intervallo determinato, e le aspettative di tagli agli acquisti di asset spingerebbero verso l’alto il dollaro statunitense penalizzando i mercati azionari emergenti, con conseguente ampliamento degli spread creditizi. Questo sviluppo potrebbe avere un doppio impatto negativo su chi deve assumere prestiti in dollari. Nel frattempo, qualsiasi oscillazione su larga scala del sentiment degli investitori a livello globale rischia di provocare un’inversione degli afflussi massicci visti negli ultimi anni, con pesanti ripercussioni sia per gli investitori che per gli emittenti.

Come già accennato in precedenza, nessun Paese – a maggior ragione nell’area emergente – è del tutto immune alla Fed e alle sue decisioni. In fin dei conti, tutte le strade riportano agli Stati Uniti.

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